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Un capriccioso confronto fra Seiichi Hayashi e Sasaki Maki

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“Se paragonate il mondo dei fumetti ad un ospedale, Garo è sicuramente un ospedale psichiatrico.”

Takashi Nemoto

Un aforisma a dir poco spettacolare, iconico e rappresentativo è sicuramente quello pronunciato da Takashi Nemoto, autore fondamentale nel panorama di Garo: leggendaria rivista che deve la sua fama in particolar modo alle sue pubblicazioni a sfondo gekiga. Nemoto non è mai stato rapito da quella tipologia di manga così convenzionale e attaccatta alle tradizioni, egli preferiva di gran lunga i generi alternativi, che oscillavano fra immagini mature ed heta-uma, passando per Yoshihiro Tatsumi e Yoshiharu Tsuge e facendo capolino sull’arte di Teruhiko Yumura (forse meglio conosciuto attraverso lo pseudonimo di King Terry), autore che ha avuto la capacità di reclutare nuovi novellini in un universo del tutto psichedelico, quali, ad esempio, Imiri Sakabashira.

“Garo è un ospedale psichiatrico”, che questa frase racchiuda una morale satirica oppure no non è importante, c’è comunque del vero. Gli autori i quali nomi compaiono sulle copertine dell’antologia mensile sono fuori di testa, in parole povere sono dei folli. Cosa spinge dunque il pubblico a perseguire ideali così strambi? Le premesse che stanno alla base del manga alternativo, sia che parliamo di gekiga, di heta-uma, di ero-guro o di altro ancora, sono infinite, sempre diverse e dannatamente originali, seppur (alcune) conservino significati critici/tragici.

Spesso queste tipologie di racconti sono imbibiti di una sensazione di “no sense”, che si rivela poi essere una pericolosissima critica a doppio taglio verso la società – argomento da sempre molto caro al mercato nipponico – , oppure di un infernale realismo, spesso narrato con toni fin troppo duri, rivolti, però, a personaggi fin troppo fragili. Cosa può legare due realtà apparentemente così separate? Quali potrebbero essere le varie correlazioni che associano il pungente gekiga di Seiichi Hayashi, allo spericolato stile di Sasaki Maki? Sicuramente un qualcosa che trascende la normalità, ahimè sempre apprezzata, ma a volte così noiosa.

Signori e signore vi presentiamo…

Un dialogo parecchio datato, risalente al lontano 1969: una delle annate in cui Garo ripetutamente sfornava galline dalle uova d’oro nuove di zecca, ma sempre utile e ricco di informazioni. Al giorno d’oggi è assai raro trovare una conversazione riguardante le curiosità, gli hobby e i gusti delle celebrità che in passato contribuirono ad esaltare il nome della rivista, proprio perché rappresentano delle sfuggenti ma antiche perle di inestimabile valore, che tuttavia, nella loro intima malinconia, propongono interessanti spunti e confronti, riciclabili anche ai giorni d’oggi.

…Seiichi Hayashi e…

Appassionato fin dalla tenera età di arte e animazione, campo artistico in cui ha la fortuna di debuttare nel 1962, Seiichi Hayashi è da sempre stato definito come uno degli autori più raffinati ed eleganti che si esibisce in quella splendida parata di nome gekiga. Accostato spesso ad altri colleghi quali Shin’ichi Abe, Yoshihiro Tatsumi, Kuniko Tsurita e i fratelli Tsuge (Yoshiharu e Tadao Tsuge), ha dato man forte alla potenza di Garo soprattutto grazie al suo lavoro più rinomato: “Elegia in rosso”, opera ancora oggi ricordata e citata (si guardi l’esempio di “Palepoli” di Usamaru Furuya). Il suo è uno stile semplice, vivace e lirico, così come il suo tratto è caratterizzato da un impressionante alone erotico.

…Sasaki Maki

D’altro canto, Sasaki Maki è unico nel suo genere. Nasce a Nagata il 18 ottobre 1946 (è un anno più giovane di Hayashi) e, fin da ragazzino, sviluppa un forte senso di attrazione verso il genere underground che si espandeva a vista d’occhio, come una malattia, sulle pagine di Garo, ma, in particolar modo, per il “no sense” di cui erano caratterizzati solitamente i lavori di Shigeru Sugiura. Spesso influenzato anche dalle strambe mentalità dei Fujiko Fujio (anch’essi interessati allo stile di Sugiura). Grazie alle varie influenze che si accumulavano ed esplodevano nelle sue opere fu in grado di dare vita a strisce manga del tutto caratteristiche, che prenderanno il nome, successivamente, di “anti-manga”.

Il mondo dei manga spesso non è scontato come sembra

“Per natura i manga sono errori, pieni di omissioni varie. Lo stile iconico di uno specifico artista spesso può oscurare, ma anche evidenziare, delle eventuali lacune o mancanze fra una pagina e l’altra, come per voler dire: “Qui c’è un vuoto, il lettore è costretto a spiccare un salto”. Eppure è innegabile, ogni vignetta è così dannatamente legata alle altre. Questi molteplici aspetti solitamente costituiscono un criterio di valutazione che va pian piano a corrodere la bellezza del fumetto in sé. A me personalmente piacciono le storie che necessitano di essere ragionate, piene di buchi ed errori, errori che non sono una causa dell’incompetenza dell’autore, ma che anzi offrono una panoramica del tutto nuova e originale. Un nuovo punto di vista in grado di sbloccare il lettore.”

Premessa pubblicata su Garo nel 1969

Disegnare manga è…

Seguono una serie di domande e risposte rapide che vedono i due autori alle prese con uno dei quesiti più sottovalutati e apparentemente scontati di sempre: “Cosa significa disegnare manga?”, “Disegnare manga è…”. La soluzione che risponde ad un enigma di tale calibro non è sempre la stessa, anzi, per essere precisi non è mai simile, e ciò a causa dei suoi aspetti sempre così soggettivi. La situazione si complica particolarmente se le due menti poste sotto i riflettori ragionano in maniera del tutto differente l’una dall’altra, adottando stili che si rifanno delle correnti artistiche più intricate e impreviste. Tuttavia, questo non vuole essere un confronto, bensì una possibilità di osservare un concetto già di per sé poliedrico da due punti di vista agli antipodi. O forse no?

…divertente

Nota: Gli autori vengono intervistati separatamente

• Seiichi Hayashi: Questa è una domanda che reputo estremamente complessa. Non sono sicuro di riuscire a dare una risposta precisa. Dipende: disegnare manga alcune volte può essere estremamente divertente, mentre altre volte ancora può essere una vera e propria tortura, penso che ciò dipenda però soprattutto dal mio stato d’animo. Tuttavia lo ammetto, quando rifletto sulle mie trame, storie quasi sempre intrise di un’aspra tristezza, mi viene difficile divertirmi.

• Sasaki Maki: Disegnare manga è un qualcosa che reputo strano, talmente strano che mi è capitato in passato di fermarmi e domandarmi: “Che cosa sto facendo qui?” (ride). Per natura sono una persona a cui piace scherzare, di conseguenza tendo sempre a mettere in evidenza il lato beffardo delle mie storie. Reputo questo processo dannatamente esilarante, mi sento un bambino di pochi mesi in mezzo ad un parcogiochi.

…divertente?

• Seiichi Hayashi: Nel mio caso disegnare, dare vita solamente tramite l’uso di una matita alle mie creazioni e vederle muoversi sul foglio di carta è un qualcosa di simpatico, che potrebbe essere dunque considerato divertente. È perciò il processo creativo ciò che mi diletta, raccontare le mie trame invece è tutta un’altra storia. Vi rivelerò una cosa: accade di frequente che, mentre lavoro, cerchi di ricreare un’atmosfera cupa e malinconica; è necessario, mi aiuta ad esprimere ciò che custodisco dentro di me.

Sasaki Maki: Si sa, la vita non è tutta rose e fiori. Molti dei miei colleghi sono influenzati dalle problematiche a cui andò e sta andando incontro il Giappone e questo interesse viene riflesso nei loro lavori. Nemmeno io, ovviamente, faccio eccezione. Si può scherzare sulla tristezza, renderla un qualcosa di più maneggevole e comprensibile, nonostante ciò, la tristezza resta pur sempre tristezza.

…faticoso

• Seiichi Hayashi: Non lo nascondo affatto, disegnare manga è faticoso, a volte lo raputo una violenza psicologica. Il desiderio di prendersi una pausa fra una tavola e l’altra è forte, molto forte, tuttavia sai al tempo stesso che devi continuare a lavorare, altrimenti verrai successivamente punito.

• Sasaki Maki: La fatica è una brutta bestia, è l’antagonista peggiore nel disegnare un’opera. Nel mio caso, la stanchezza si verifica nell’esatto momento in cui sono a corto di idee: comincio a sfregarmi la testa e a stropicciarmi gli occhi e poi “boom!”, il vuoto più totale. Odio quei momenti, sembrano durare in eterno.

…appagante

• Seiichi Hayashi: In fin dei conti, però, ritengo che disegnare manga sia soprattutto soddisfacente. Quando concludi una tavola, seppur questa rappresenti solamente un minimo tassello di un gigantesco mosaico, ti senti ricompensato, ti congratuli con te stesso dicendo tipo: “Wow! Ce l’hai fatta!”. È normale, è appagante vedere, dopo ore e ore di lavoro, che la tua storia sta finalmente prendendo vita.

• Sasaki Maki: Quando finisco di realizzare una storia divento la persona più felice del mondo, sono così esaltato che vorrei quasi cominciare a pensare ad una trama successiva. I miei lavori sono intrisi di una particolare sensazione di “no sense”, per questo motivo sono molto soddisfatto di me stesso quando riesco ad aggiungere un pizzico di originalità in ognuna delle mie vignette. Nel mio caso, non cadere mai nella banalità è l’obiettivo principale.

…boh!

• Seiichi Hayashi: Ci sono volte in cui sono totalmente immerso nel lavoro e può capitare che, quando alzo la testa per un momento dal foglio, mi stupisca di me stesso: “Questa narrazione fila davvero bene”, mi dico (ride). È come se ad un certo punto cominciassi a disegnare automaticamente, a cervello spento. Forse è l’abitudine di tenere per ore e ore in mano una matita, tuttavia, ancora oggi, non riesco a capacitarmi delle mie abilità.

• Sasaki Maki: Come dicevo prima, disegnare è un’azione bizzarra. Fermiamoci un momento a riflettere: l’autore prende in mano una matita e comincia ad abbozzare personaggi tutti diversi che andranno in seguito a recitare uno specifico copione; è come se una persona desse origine ad un altro “universo”. Detto questo, ogni artista può dare vita ad una differente “realtà”, oppure a più “realtà”. Quando lavoro ad un manga mi sento una specie di divinità (ride).

…disegnare manga

• Seiichi Hayashi: Quando delle persone mi chiedono dei chiarimenti sulle mie opere, solitamente tendo a girare intorno alla risposta vera e propria. Fatico a rivelare ciò che penso, ciò che viene dal profondo della mia anima, proprio per questo motivo lascio ai miei lettori questo compito. Io ho semplicemente disegnato ciò che provavo, ora tocca allo spettatore comprendere la mia trama in maniera del tutto soggettiva. È come essere al cinema: una volta che il film si è concluso la platea non riceve alcuna spiegazione, torna semplicemente a casa, pensando.

• Sasaki Maki: Non per forza dev’esserci una soluzione, molto spesso vi sono semplicemente autori che decidono di collocare in una pagina un’immagine perché così doveva essere. Ho appreso questa filosofia dal maestro Shigeru Sugiura, che all’epoca mi strapazzò letteralmente con le sue opere, chi l’avrebbe mai detto che sarei diventato un soggetto simile a lui? (ride). Garo è pieno di autori così, autori che disegnano per motivi apparentementi insensati, ma che in realtà…

Seiichi Hayashi e Sasaki Maki sotto uno stesso tetto?

Vi è innanzitutto da precisare un concetto che sta alla base dell’intero discorso e che, ricoprendo tale posizione, funge da collante che tiene in piedi l’intera struttura. Il movimento artistico, e oserei dire culturale, del gekiga nasce fondamentalmente a cavallo degli anni ’60 insieme alla pioneristica figura di Yoshihiro Tatsumi, andandosi poi ad espandere repentinamente grazie ad autori quali Yoshiharu Tsuge e Shin’ichi Abe. La storia del gekiga meriterebbe logicamente più spazio ed anzi, potrebbe quasi sembrare dispregiativo riassumerla in poche righe; nonostante ciò, al momento ci occorre sapere semplicemente che la versatilità con cui venivano trattate le tematiche tipiche dell’epoca diede origine a stili e mentalità sì differenti, ma al contempo accomunate da un unico filo, simili.

Uno sguardo allo stile cinematografico di Seiichi Hayashi

Seiichi Hayashi viene spesso ricordato come un vero e proprio “regista” del gekiga e questo grazie alla sua peculiare abilità nel raccontare i fatti, a legare e tagliare fra di loro le vignette, proprio come un attento direttore cinematografico. Lo stile dell’autore è nuovo nel panorama fumettistico dell’epoca, bizzarro e anzi, quasi astratto agli occhi degli spettatori, anche a quelli dei più esperti. Il tratto di Hayashi è affetto da una continua e intrigante evoluzione, che da una parte mostra le tavole intrise di colore caldo di “Dwelling in Flowers” e dall’altra le combinazioni vorticose appartenenti a “Elegia in rosso”.

Eppure, spesso tali mutazioni sono volute, non frutto di un analitico e capillare processo di studio; basti notare solamente, infatti, che la prima delle due opere venne pubblicata nel 1972, mentre “Elegia in rosso” ben due anni prima. Strano da credere, effettivamente pare di avere sott’occhio due stili completamente differenti. La poetica di Seiichi Hayashi potrebbe perfettamente essere definita dunque come il “manga alternativo dentro il manga alternativo”, ciò non per colpa della moltiplicità delle tematiche narrate, bensì a causa dell’intento di fare apparire queste ultime molteplici, offrire scorci differenti per angolazioni già di per sé complesse. In breve, l’autore previene e forse arriva anche a contrastare l’immaginazione del lettore.

“Gold Pollen”

Molto probabilmente una delle antologie più complete che racchiudono la cruda e gelida poetica di Seiichi Hayashi. “Gold Pollen” si presenta come una raccolta di storie miste, sfasate ma al contempo strettamente legate. La particolarità di tale antologia è senz’alcun dubbio la datazione di tali storie, racconti che si diramano a cavallo della fine degli anni ’60 e gli inizi degli anni ’70, periodi storici che comprendono perfettamente il capolavoro dell’autore: “Elegia in rosso” del 1970.

“Il cardo giapponese, così come la rosa, possiede delle spine ed un colore molto vivace, ma, a differenza della rosa, cresce allo stato selvatico e non viene apprezzato in egual modo. Per la creazione di ognuna di queste opere, mi sono affidato a questo concetto.”

Seiichi Hayashi
“Dwelling in Flowers” – 1972

Seiichi Hayashi descrive “Dwelling in Flowers”, prima opera ad apparire sull’antologia, ma ultima ad essere pubblicata – il che non è un caso – , come un racconto semi-autobiografico, che ritrae un periodo estremamente delicato della sua vita. L’autore decide di prendere in considerazione gli anni in cui lui e la madre convivevano a Nakai in un unico appartamento e il suo imminente matrimonio con la fidanzata, cerimonia che vedrà pian piano sfumare dinanzi ai suoi occhi.

L’artista si rivede nei panni del protagonista maschile: una tecnica narrativa da sempre utilizzata dai letterati giapponesi, sfruttando, però, uno stile insolito, in grado di avere un impatto stordente e più marcato sul lettore, quasi come se il “manga fosse un cartellone pubblicitario”, così dice. Il filo narrativo di “Dwelling in Flowers” è la perfetta combinazione di tristezza e riflessione, due forze che agiscono in totale sinergia. Con poche parole Hayashi riassume in gran parte eventi cruciali della sua vita, certi neppure accennati all’interno delle pagine: il rapporto materno, lo stesso genitore che lo ispirò più volte, la solitudine, la personale visione della realtà, il primo incontro con Yoshiharu Tsuge e molto altro ancora.

L’idea originale sarebbe stata quella di trattare gli argomenti presentati nel racconto in questione in “Elegia in rosso”, tuttavia Hayashi decide di studiare la sua trama da un punto di vista più intimo e infantile, rievocando la relazione madre-figlio, ma osservandola attraverso una panoramica più matura. Gli origami a forma di gru richiamano precisamente questi concetti, gli stessi origami che era solita donargli, per l’appunto, la madre.

“Red Dragonfly” – 1968

“Red Dragonfly” rappresenta uno dei primi successi di Seiichi Hayashi, in particolar modo dal punto di vista stilistico: il tratto dell’autore comincia a divenire sempre più fluido, pare come dissolversi all’interno delle pagine. Anche in questo caso l’artista sceglie di adottare come sua musa ispiratrice la madre, che in questa storia occupa un ruolo centrale, ma estremamente malinconico e pesante per l’infanzia del mangaka.

“Vidi mia madre piangere per la prima volta all’epoca in cui frequentavo la terza o la quarta elementare. Mi sono svegliato nel cuore della notte e l’ho trovata intenta a fissare un angolo del soffitto, mentre le sue lacrime scorrevano. I suoi occhi diventavano lucidi con una precisa frequenza, come il sangue che pulsa. Ad un certo punto, mi è parso veramente che stesse lacrimando sangue.”

Seiichi Hayashi

L’autore racconta le problematiche legate al suo passato in maniera cauta, ma al contempo tramuta la sua storia in un qualcosa di assurdamente popolare, fondendo l’intimità con la collettività. Per un cittadino giapponese dell’epoca, infatti, il titolo già chiarisce molti dei punti che Hayashi andrà man mano a narrare. “Red Dragonfly” (letteralmente “Libellula rossa”), difatti, è il nome di una poesia per bambini tratta da un componimento di aspetto agrodolce di Rofu Miki, trattante del poeta stesso e del suo addio nei confronti della tata (che nella poesia definisce “sorella”) che lo manteneva.

“Tramonto rosso, nugolo di libellule rosse che ho visto inseguirmi. Quando fu mai? I gelsi con le more sui terrapieni assolati ed io a riempire il minuscolo cesto. È forse illusione? A quindici anni mia sorella è andata sposa e non giungono più notizie del mio paese. Tramonto rosso, nugolo di libellule rosse… piccola libellula rossa riposo in attesa all’estremità di un palo di bambù.”

“Akatombo” – Rofu Miki

Nonostante le poche tavole presenti, “Red Dragonfly” risulta probabilmente una delle opere più complete e significative dell’intero repertorio di Hayashi, il quale, attraverso l’uso di un semplice pennello, rivive in prima persona i momenti passati con la madre – da quanto detto dall’artista, fu il genitore ad impartirgli lezioni di calligrafia – , sottolineando ossessivamente la sua difficile e disperata situazione familiare, incerta e spaventosamente in bilico, a causa di un divorzio e di una successiva, cruda, convivenza.

“Yamanba Lullaby” – 1968

“Yamanba Lullaby” rappresenta una vera e propria perla di inestimabile valore nel repertorio di Seiichi Hayashi, principalmente perché fu uno dei primi titoli con cui l’autore diede alla luce il suo allegorico stile accomunato spesso alla Pop-art, e questa è molto probabilmente una delle similitudini che accomunano l’artista in questione e Sasaki Maki. La presenza di gru origami nelle prime pagine dell’opera lasciano intendere che, anche in questo caso, la figura della madre risulta di cruciale importanza, vedendosi mischiata assieme a figure classiche del fumetto o del folklore nipponico, incluso uno spettacolare omaggio alla penna di Shigeru Mizuki.

Dettaglio di notevole importanza in questo breve racconto è l’impatto occidentale, visibile, per esempio, nelle figure di Superman e Batman, quest’ultimo ben rappresentato in un paio di vignette affiancato dalla scritta “sponsor”: che Hayashi abbia voluto omaggiare le creazioni occidentali? Probabile, dopotutto “Yamanba Lullaby” è stata definita come una delle opere più criptiche dell’autore, non tanto dal punto di vista narrativo, bensì per quanto riguarda i contenuti.

L’autore scherza modellando la miriade di personaggi che si alternano abilmente fra una tavola all’altra, mischiando il tutto con un pizzico di folklore nipponico (e qui viene magistralmente giustificata la presenza di Mizuki), quasi anticipando l’esplosione mitologica che avverrà poi in “Gold Pollen”. In un’evidente ripresa di quella che potrebbe assomigliare alla leggenda di Kintaro, Seiichi Hayashi trova il modo persino di rompere la quarta parete, tingendo i panorami di un rosso sangue intenso, classico del suo stile.

Tuttavia, la vena geniale si nasconde nel titolo. L’artista, da sempre affascinato dal mondo del teatro, decide di effettuare una velata citazione a “Yamanba”: una storia legata al teatro Noh, caratterizzata da un aspetto grottesco e teso, la stessa tensione che affliggeva il Giappone dell’epoca. Il termine “Lullaby” (letteralmente ninna nanna), infine, dona all’opera un profilo paradossale e quasi sperimentale, contrapponendo due sensazioni per natura collocate agli antipodi.

“Gold Pollen” – 1971

“Gold Pollen” è il titolo che chiude la raccolta dall’omonimo nome, nonostante ciò, ed è questa la sorpresa, resta in tutto e per tutto un racconto inconcluso. Hayashi nel 1976 trascrisse in una postfazione che l’opera in questione era strettamente collegata ad un altro suo copione, ovvero “Hana no uta” (1969), sfortunatamente anch’essa rimasta incompiuta. Cosa ha dunque da raccontare un lavoro dalla pubblicazione così travagliata?

“In “Hana no uta” il mio intento era quello di inquadrare un giovane la cui vita affoga nel desiderio sessuale; alla fine della trama, l’uomo si sarebbe dovuto ritrovare fra le macerie di una città urbana, solo. Con “Gold Pollen” ho provato a riprendere una morale simile, ma ad inquadrarla da un punto di vista del tutto differente. La storia comincia mostrando un cavaliere che indossa un elmo occidentale, mi sono detto: “Questo è Ikki Kita”.”

Seiichi Hayashi

Il significato che le pagine di “Gold Pollen” custodiscono è enorme e pensandoci è tristemente riduttivo sintetizzare il tutto in pochi paragrafi. L’autore nelle prime tavole prende in considerazione la figura di Ikki Kita, il quale, dopo aver manifestato delle opposizioni verso la costituzione Meiji, venne giudicato per aver organizzato un colpo di stato. Del materiale concreto dunque, che potrebbe persino alludere allo scandalo di Yukio Mishima (avvenuto solamente un anno prima), episodio dal quale l’autore venne profondamente scosso. Si notino ad esempio la testa mozzata, chiaro riferimento all’harakiri, il rosso del sangue e, indubbiamente, il patriottismo presente nel titolo di Hayashi.

L’opera in questione è la perfetta dimostrazione di come l’artista sia al tempo stesso anche un regista, in grado di proporre tematiche completamente differenti, ma che in realtà appaiono del tutto omogenee. “Gold Pollen” affonda le sue radici nella mitologia, avvalendosi della figura del Gashadokuro, richiamo alla povertà giapponese, ma anche del desiderio sessuale, mostrato, per esempio, attraverso l’apparizione di una vagina nelle prime pagine. La narrazione in sé, però, mira soprattutto a divenire un riassunto del Giappone del XX secolo (e non) e al tempo stesso una critica, tutto ciò avvalendosi del protagonista: Hinomaru, lo stesso nome che porta con orgoglio la bandiera giapponese.

Uno sguardo al (anti) manga di Sasaki Maki

Se Sasaki Maki dovesse obbligatoriamente essere paragonato ad un artista in particolare, personalmente arriverei a confrontarlo con Andy Warhol, oppure con un genio del calibro di Roy Lichtenstein, insomma, tutti autori estremamente partecipi nel panorama della Pop-art. A pensarci bene, dopotutto, la Pop-art fiorì in annate estremamente vicine, se non proprio coincidenti, con il periodo in cui si affermò il manga alternativo, di conseguenza risulta letteralmente impossibile non pensare che quest’ultimo non abbia ricevuto nemmeno un minimo di ispirazione.

Già Seiichi Hayashi formulò il suo stile su un modello simile e, forse persino meglio di lui, anche Sasaki Maki ebbe questa brillante idea. Le opere di quest’ultimo sono invase di colore, colme di dettagli che lasciano intuire una vera e propria rivoluzione artistica silenziosa, portata avanti da un singolo individuo, non curante poi più di tanto degli altri, bensì attento a rimuginare sul proprio foglio, a testa bassa. Può sembrare forse strano, ma dopotutto non era questa la filosofia dell’epoca?

Hear No, Speak No

Nel 1970, Sasaki Maki sorprende il pubblico, presentando sull‘Asahi Journal, ovvero una delle riviste giornalistiche giapponesi più importanti di sempre, una “storia” del tutto atipica, che, sotto certi punti di vista, non potrebbe nemmeno essere considerata come tale: “The Dog Goes”. Il contenuto di tale opera è caratterizzato da una semplicità sbalorditiva, si tratta infatti di una trama suddivisa solamente in tre pagine, ognuna contenente in media tre/quattro sole vignette. In poche strisce, il lettore osserva le movenze di un cane deforme e bizzarramente abbozzato, intento a camminare attraversando paesaggi apparentemente diversi ma in realtà simili.

La particolarità su cui l’autore vuole far concentrare il lettore è il mutismo e l’ “inespressività” di cui le sue immagini sono intrise, quasi come per voler mostrare al mondo che è possibile realizzare storie con un importante significato senza l’aggiunta di eventuali dialoghi. Nonostante ciò, sfortunatamente, un’idea simile era già stata annaffiata e colta dagli artisti gekiga tempo prima. Rassegnandosi parzialmente al raggiungimento di un simile obiettivo, a Sasaki Maki non restava altro che appoggiarsi al suo tratto originale. Nasce proprio così “The Dog Goes”, come si può intuire d’altronde dalle parole stesse dell’autore:

“”The Dog Goes” non è la prima opera in cui impiego una filosofia simile, tuttavia è la prima opera in cui tento di trasmettere qualcosa al pubblico usufruendo del minor numero indispensabile di vignette. Già all’epoca il signor Tatsumi e la sua banda adoperavano le immagini per trasmettere dei precisi stati d’animo: se solo ci avessi pensato prima! Così ho deciso di diventare ancora più folle di quanto ero già.”

Sasaki Maki

Ed è così che Sasaki decide in un freddo pomeriggio invernale di abbozzare – termine ironico da utilizzare in questo contesto sinceramente parlando – un esemplare canino che se ne va a zonzo per le vignette. La ripetizione è una delle chiavi principali dell’intero buffo racconto e anzi, rappresenta una vera e propria trappola. Il costante ripetersi degli stessi scenari è fatto apposta, tutto ciò è stato creato per rapire il lettore, collocarlo in uno spazio altamente psichedelico al fine di porgli un preciso quesito: “Dove ti trovi? Che fumetto è questo?”, un enigma a cui è impossibile sfuggire. Si può solo andare avanti, continuare la pseudo-lettura. Sasaki Maki vuole coinvolgere lo spettatore, regalando lui un biglietto sola andata per le sue fantasmagoriche montagne russe.

What are we seeing? Where are we going?

Se l’intento del pubblico è immergersi nelle opere di Sasaki Maki, allora la regola numero uno da rispettare è che non vi è nulla di scontato. Potrebbe apparire di tutto dietro l’angolo, così come potrebbe apparire qualsiasi cosa nella vignetta che il lettore ha sotto gli occhi, proprio perché soggetta a libera interpretazione. Difatti se vi è un qualcosa di sorprendente nelle storie dell’artista, quel qualcosa è sicuramente la presenza di un evidente flusso di coscienza “makiano”: il mangaka versa nelle sue tavole tutti i suoi pensieri, collegati o scollegati che siano. Ahimè, di certo non parliamo di un Joyce, ma le diverse interpretazioni che le opere di Sasaki accettano potrebbero benissimo far apparire la narrazione come un “Finnegans Wake”.

Una rete di filo spinato, una gigantesca lattina raffigurante il volto di un Bodhisattva, una bicicletta abbandonata sullo sfondo del panorama, un edificio in rovina: cosa accomuna tutti questi particolari? A primo acchito nulla, eppure qualcosa sotto sotto c’è, o almeno questo è quello che l’autore vuole far credere. In “The Dog Goes” le scene sono fondamentalmente divise in due parti: la prima, presente nella tavola introduttiva, rigorosamente pulita e lineare, ma comunque bizzarra e la seconda, rappresentata dalle pagine finali, parodica, tautologica e assurdamente irreale. Un cane si limita a girovagare per le pagine: cosa c’è da capire? Che significati nascosti potrebbe mai contenere un’operetta simile? Queste domande sono un buon punto di partenza per comprendere la filosofia dell’autore. Non ci vuole molto, qui non abbiamo sotto gli occhi una storia, bensì una vera e propria parodia interpretativa.

Quando il lettore pensa di aver afferrato una plausibile chiave di lettura ecco che si vede costretto a girare pagina, luogo in cui l’animale subisce una distorsione anamorfica, una trasformazione sinonimo di cambiamento, che costringe lo spettatore a (ri) assemblare i suoi pensieri da capo. Non vi sono discorsi, nonostante ciò, in ogni vignetta, esclusa quella conclusiva, il cane si autonomina attraverso l’uso del kanji “犬” (letteralmente cane), proprio come se volesse attrarre l’attenzione su di sé. Tutto ciò potrebbe essere riferito al lettore e alla sua ossessione nell’interpretare il nulla. Il pubblico si trasforma in un animale? Esattamente, un esemplare canino che nell’ultima tavola muore letteralmente, facendo uscire dalla sua bocca un ultimo baloon, vuoto, neutralizzando e parodizzando, ancora una volta, ogni possibile spiegazione.

Un implacabile citazionismo che annienta il lettore

L’inarrestabile desiderio di sperimentare spingendosi oltre ogni limite porta l’autore a trascinare all’interno delle pagine dei suoi manga le più imprevedibili e sorprendenti citazioni, affascinanti riferimenti che possono alternare per esempio “L’Urlo” di Edvard Munch ad un semplice pacchetto di Camel. Sasaki è assolutamente convinto che il collegamento ipertestuale sia rigorosamente necessario al fine di colmare le eventuali lacune delle sue storie, già di loro zuppe di figure. Viene così alla luce una sfrenata voglia di citare opere e artisti vari, inserendoli sul foglio non attraverso una banale scusa, tutt’altro, spargendoli qua e là come granelli di sale, pasticciando come dei bambini.

Raramente i riferimenti presentati alla platea assumono uno specifico significato, spesso questi vengono inseriti solamente per far apparire l’irreale ancora più criptico e straniante di quanto sia già. Altre volte ancora, invece, Sasaki sceglie semplicemente di inquadrare, attraverso le sue brevissime ma intense satire, uno specifico Giappone (ma non solo), solitamente quello del XX secolo, annate di cui lo stesso autore fece parte. Ma questo perché? Non bisogna affatto credere che i manga prodotti dall’artista si limitino ad essere dei convenzionali “registri storici”, anzi, l’idea è totalmente differente: mostrare alle persone il cambiamento radicale a cui il paese sta andando incontro, in ogni sua sfaccettatura, rendendo così dei semplici dettagli dei veri e propri simboli, riferiti a degli importanti passaggi che hanno segnato la nostra epoca.

Qui c’è veramente qualcosa che non quadra

Le particolari narrazioni di Sasaki non si limitano ad essere solamente racconti “no sense”, ma si identificano come veri e propri titoli che sbaragliano letteralmente ogni canone convenzionale. L’etichetta “anti-manga” non è di certo presente per caso e anzi, a primo acchito un nominativo simile potrebbe addirittura spaventare. Non è raro infatti notare dei veri e propri errori all’interno di una vignetta, sviste e imprevisti spesso calcolati, posti all’interno di un manga per il desiderio di differenziarsi dalla massa comune. L’opera di Sasaki Maki sembra come un rebus, oppure come un libro da colorare, di quelli che i bambini adorano. È notte, eppure il cielo non è nero, un campanello viene suonato, eppure il suono che ne fuoriesce è un dolce cinguettio, una bicicletta con delle ruote poligonali che scala una ripida salita, questo e altro: è la parata del bizzarro.

“Una volta è capitato che il mio editore non capisse ciò che avevo rappresentato. Conoscevo quella persona da molto tempo e prima d’ora ci eravamo sempre intesi a vicenda, eppure proprio non riusciva a saltarci fuori. Quando gli spiegai cosa i suoi occhi stavano vedendo, lui mi domandò: “Ma tu Sasaki riesci a spingerti anche oltre questo?”. Non diedi una risposta secca, mi limitai semplicemente a dire che la prossima volta avrei provato a disegnare ad occhi chiusi, unendo successivamente i punti che mi sembravano più simili fra loro.”

Sasaki Maki

La vignetta è una finestra che si affaccia su un universo sconfinato

“I manga di Sasaki Maki mi hanno insegnato cosa una persona dovrebbe dire quando non c’è nulla da dire.”

Murakami Haruki

Siamo sinceri: di certo un novello lettore non comincia la sua lettura dalle opere di Sasaki Maki; a dire la verità, il passaggio che potremo definire da manga ad “anti-manga” non è affatto immediati ed anzi, in alcuni casi non si verifica proprio. La differenza fra le due tipologie risulta evidente fin da subito, tuttavia la principale particolarità che contraddistingue una storia di Sasaki da una trama convenzionale è la spazialità, l’architettura classica di un manga che in realtà non è un manga. In questo caso i limiti che racchiudono una vignetta contano ben poco, non servono a rendere più lineare e ordinata la narrazione, tutt’altro, la confondono e hanno inoltre una funzione ben più grave: ostacolare l’immaginazione.

Così i limiti preposti vengono intravisti dall’autore come un ostacolo da superare, e, nel caso ciò non fosse possibile, da rompere, letteralmente. Nonostante questa premessa però, spesso uscire fuori da questi schemi non è un qualcosa di facile: il personaggio può varcare la soglia che separa il mondo di carta da quello concreto solamente se le sue azioni hanno un preciso fine, oppure un assurdo, ma tuttavia logico, scopo. Per far fronte a tali evenienze, Sasaki Maki decide di pubblicare assieme ad una sua raccolta di storie brevi una vera e propria guida, quasi emulando il manuale heta-uma pubblicato anni prima da uno dei suoi miti: Takashi Nemoto.

Per una discreta quantità di pagine, Sasaki narra di come egli stesso ha avuto modo di approcciarsi al manga alternativo, fino a raccontare per filo e per segno del suo atipico stile. Fondamentalmente, per rompere il cosiddetto quarto muro, occorre pazienza. Un personaggio che infrange una dimensione non è un obiettivo che l’artista si prefigge ancora prima di cominciare a disegnare la storia, bensì un qualcosa di immediato, che deve far sobbalzare il lettore. Una volta che il soggetto è evaso di prigione, questo può fare qualsiasi cosa voglia: non è più comandato a bacchetta dal creatore. Sasaki Maki porta allo stremo questa filosofia nuova di zecca, abbozzando nelle sue opere aeroplanini che sfrecciano seguendo il perimetro della pagina, per poi uscire completamente di scena, scomparendo all’orizzonte, oppure deforma la vignetta fino a strapparla del tutto, liberando ciò che è dentro.

“La vignetta è una finestra che mostra un panorama straordinario. Agli autori manga spesso questo concetto sfugge, ma il mondo fuori dai riquadri è molto più vasto di quello in cui si è soliti ambientare una storia. Provate ad aprire quel pertugio e vedrete.”

Sasaki Maki
“Palepoli” di Usamaru Furuya, per esempio, in alcuni casi mostra simpatiche scene che perseguono la stessa filosofia di Sasaki Maki.

Faccia a faccia

Singing Our Own Song – Garo (1969)

“Sasaki Maki è nato a Kobe e ha ventidue anni, Seiichi Hayashi è nato a Tokyo e ha ventitre anni. Entrambi gli autori hanno attirato l’attenzione del pubblico sulle loro storie, intrise di significato, ma che mostrano la minaccia della guerra solamente in secondo piano, lontana. Abbiamo approfittato del soggiorno del signor Sasaki a Tokyo per organizzare un’intervista di coppia e, dato l’improvviso incontro, gli argomenti trattati non saranno inerenti solo ed esclusivamente al mondo del fumetto.”

Premessa pubblicata su Garo nel 1969

L’obiettivo e lo scopo del mangaka

Sasaki Maki è contento, ma al tempo stesso un po’ agitato di tenere una conversazione con così poco preavviso.

• Sasaki Maki: Tre anni fa ho pubblicato sulle pagine di Garo “Yoku Aru Hanashi”, l’opera con cui ho debuttato nel mondo dei manga e nel 1967 “Mishiranu Hoshi”, ma nel novembre dello stesso anno (nota: “Mishiranu Hoshi” uscì nel febbraio del 1967) diedi alla luce “Tengoku de Miru Yume” (“A Dream in Heaven”): titolo che mi fece completamente rinascere. Penso dunque a “A Dream in Heaven” come la mia prima opera.

• Seiichi Hayashi: Io invece per un certo periodo della mia vita mi sono guadagnato da vivere nel settore dell’animazione, solamente poco tempo dopo decisi di iniziare la mia carriera di artista manga. Forse sentivo il bisogno di dire ciò che mi tenevo dentro, di conseguenza non pensavo minimamente ai miei obiettivi. Ancora adesso probabilmente la penso allo stesso modo.

• Sasaki Maki: Se usi il manga per dare origine ad una satira, il fumetto viene visto come un mezzo e non come un fine. Il manga non è un obiettivo, è il mezzo con cui creare un effetto tangibile che arrivi fino allo spettatore. Tuttavia vi sono anche opere che preferiscono ragionare più sulle immagini che sulla morale; ultimamente mi sto dedicando più a questa tipologia.

• Seiichi Hayashi: Nel mio caso, se mi domandi perché disegno manga, ti risponderei semplicemente “perché c’è qualcosa che voglio disegnare”. Se mi costringi a spiegare ciò che intendo, direi che “creare manga è una sorta di violenza”, specialmente per me stesso: posso dare vita ai miei personaggi, ma se non riesci a comprendere cosa questi vogliono trasmettere non contare su di me, mi viene difficile spiegarlo, perché viene dal profondo della mia anima.

• Sasaki Maki: Nel caso dei romanzieri, prendi ad esempio Kenzaburō Ōe (premio Nobel per la letteratura nel 1994), la faccenda è simile. Ōe non scrive solamente romanzi, per guadagnarsi da vivere si dedica anche alla composizione poetica e alla stesura di diversi saggi. Capisci cosa voglio dire? L’artista deve sperimentare forme artistiche simili ma differenti, in maniera tale da essere in equilibrio con sé stesso. Mi piacerebbe molto diventare una persona simile, al momento sento che ci sono ancora molto lontano.

• Seiichi Hayashi: Capisco cosa intendi. Molto spesso, il pubblico etichetta le mie opere e le tue opere come “difficili”; questa affermazione mi ha fatto ragionare molto. A prima vista si potrebbe pensare che il messaggio lasciato dall’autore non sia chiaro, che la trama sia dunque un fallimento, tuttavia non è affatto così. Personalmente scrivo i miei copioni basandomi sulla mia intimità: non mi aspetto che il lettore intenda l’opera come dico io, ma in maniera del tutto personale. Questo a mio parere significa disegnare manga. Per alcune persone uno più uno fa due, per altre cinque e per altre ancora magari dieci.

• Sasaki Maki: Hai perfettamente ragione, i manga sono confusione! (ride). Sono stato veramente soddisfatto quando mi hanno detto che le mie opere sono riuscite ad uscire da quell’angusto spazio chiamato “normalità”, significa che ero riuscito a trasmettere qualcosa, non so cosa di preciso, ma non importa, era comunque sufficiente. Se un fumetto dovesse contenere solamente frasi su frasi troncherebbe di netto la nostra folle immaginazione, non ci sarebbe alcun divertimento. Così vale ad esempio anche per la musica.

• Seiichi Hayashi: Come dicevi prima, alla fine, le immagini sono solamente un mezzo.

Dove artista e lettore divergono

• Sasaki Maki: Hayashi consideri per caso le tue prime opere schematiche? Intendo dire: pensi che i tuoi primi racconti abbiano seguito sempre la stessa strada? Nel caso del gekiga può essere un errore comune. Ad esempio, la figura paterna solitamente è vista come un simbolo della vecchia generazione, che ha vissuto sulla pelle la guerra e che preferisce rimuginare nel suo guscio; d’altro canto, invece, il bambino che esce di casa per giocare simboleggia la nascita di una nuova società.

• Seiichi Hayashi: In realtà non ho pensato molto a questi simbolismi, mi sono semplicemente buttato nella mischia affiancato dal mio sapere.

• Sasaki Maki: Capisco. Tuttavia è inevitabile, si finisce per associare una figura ad un suo ipotetico significato. Questo è quello e quello è quest’altro.

• Seiichi Hayashi: È un qualcosa che succede spesso, come dicevamo prima non esistono due persone al mondo che la pensano allo stesso modo. Non possiamo però prendere il lettore che ha interpretato l’opera in modo diverso e cacciarlo dal gruppo (ride). No?

• Sasaki Maki: Mi hai appena fatto venire in mente una cosa. Personalmente disprezzo quella parte di pubblico che si sofferma troppo tempo su una tavola al fine di tirarne fuori uno specifico significato: non mi piacciono questi intellettuali! (ride). Che senso ha studiare una roccia se questa non ha nulla da dire? È una roccia! Una semplice roccia! Per questo motivo molto spesso inserisco nelle mie opere immagini prive di alcun tipo di interpretazione, come per dire: “Accettatele! Fatevi una risata”.

• Seiichi Hayashi: Hai mai desiderato che i tuoi lettori recepiscano la storia come vuoi tu?

• Sasaki Maki: Posso essere sincero? La risposta è sì. È bello volare con l’immaginazione, ma molto spesso vorrei mostrare al mio pubblico quanto io abbia sudato o sofferto per farli contenti.

• Seiichi Hayashi: Sono dello stesso parere, mentiremmo dicendo che non ce ne importa nulla. Non c’è cosa più bella nel mondo del fumetto che creare un ponte fra artista e lettore.

Sasaki Maki: In quest’epoca l’espressione “Cos’è il manga per te?” potrebbe essere benissimo sostituita con “Cos’è il lettore per te?” (ride).

• Seiichi Hayashi: Mi piace.

• Sasaki Maki: Quando ho letto un paio di titoli da te pubblicati, ad esempio, mi è parso di sentire più volte cosa volevi veramente inculcare nella mente del lettore. È estremamente ironico notare come tu sia riuscito a costruire un legame con il pubblico attraverso tematiche talmente fragili.

• Seiichi Hayashi: Davvero? Sei riuscito a scovare la soluzione che risolve il rompicapo? (ride). Nel tuo caso, invece, solitamente inizio a leggere l’opera dando prima uno sguardo a metà racconto, non comincio mai dalla prima pagina. Penso che le tue morali siano nascoste, impossibili da trovare dopo una singola lettura.

• Sasaki Maki: Esattamente. Prova a leggere una mia storia considerando ogni striscia come separata dalle altre.

• Seiichi Hayashi: Sembra come se le tue vignette siano cristallizzate nel tempo. Tuttavia è strano: alla fine trovi sempre il modo di condensare il tutto. Questo lo reputo molto interessante.

• Sasaki Maki: Sai? Quando disegno non penso all’ordine in cui compariranno le tavole, solitamente disegno una pagina al giorno, dunque mi viene difficile pensarlo. Non so nemmeno io come faccia, ma alla fine rimescolo le carte in tavola andando a costituire un unico mazzetto.

• Seiichi Hayashi: Molti dei miei amici la pensano in questo modo: “Sasaki Maki lavora come se stesse scrivendo un diario” (ride).

• Sasaki Maki: Molto spesso mi pento anche della sequenza finale. Comincio a rimproverarmi dicendo: “Probabilmente questo pannello calzava meglio in quel punto e quello invece dall’altra parte”.

• Seiichi Hayashi: Pensi sia veramente possibile rimescolare il mazzo di carte una volta finiti i giochi?

• Sasaki Maki: Tutto è possibile.

Who are your Friends, Who are your Enemies? – “Boom! Rivoluzione!”

• Sasaki Maki: Solitamente, quando pubblichi un’opera, sei pronto a farti carico di ogni eventuale problematica. Molti autori reputano il disegnare manga un impiego faticoso, tuttavia io sono contrario a tale affermazione: finché gli editori ti concedono un po’ di libertà va tutto a gonfie vele, fondamentalmente hai un piano di lavoro che gestisci da solo, senza il fiato sul collo. Se così non fosse, beh… sarebbe doloroso (ride).

• Seiichi Hayashi: Se ci pensi, però, persino gli editori su certe questioni devono allentare la presa. Gran parte dei miei colleghi li considerano dei mostri che impongono scadenze (ride), tuttavia vi sono occasioni in cui nemmeno gli editori possono controbattere: occorre tempo per riportare su carta il proprio pensiero, non penso sia possibile creare una buona opera in poco tempo. È vero anche che solitamente bisogna stare attenti a non uscire da uno specifico e marcato confine, ma questo è un dogma inevitabile, a cui bisogna sottostare. Prendi Seijun Suzuki, molte volte ha deciso di ribellarsi ad un clima così opprimente.

• Sasaki Maki: Capisco cosa intendi. Penso sia un bene qualche volta ribellarsi a questi rigidi schemi, l’autore non vuole sottostare a nessuno dopotutto, l’unico suo intento è cantare la propria canzone.

• Seiichi Hayashi: Molte volte occorre una “rivoluzione”, possiamo dunque definire l’artista come un “rivoluzionario”. Basta una sola persona per cambiarne altre mille.

• Sasaki Maki: Una volta un mio amico si arrabbiò con me quando dissi che il mercato manga era come un campo di battaglia, mi rimproverò dicendomi che l’unica differenza fra i due era che nel secondo conosci i tuoi nemici.

• Seiichi Hayashi: Questo è vero.

• Sasaki Maki: Bella frase vero? Fare una tranquilla passeggiata in montagna può essere divertente, certo, ma è solo quando ti perdi in un bosco che aumenta la tensione e dunque l’adrenalina. È esilarante.

Il significato di famiglia e nazione

• Seiichi Hayashi: A mio parere, durante una guerra, le persone si identificano esclusivamente come vittime e mai come colpevoli. Tu cosa ne pensi?

• Sasaki Maki: È una valida considerazione, tuttavia l’industria fumettistica possiede un’architettura assai complessa: chi sono i tuoi alleati? E chi sono invece i tuoi antagonisti? Come dicevamo prima. Ad un certo punto devi per forza schierarti da una parte, di conseguenza la scelta di sentirsi vittima oppure no diventa un qualcosa di soggettivo.

Seiichi Hayashi: Tuttavia, quando emerge il problema di che cosa è bello e cosa no, la faccenda si semplifica: la gente tende a schierarsi dove c’è del bello, anche se bellezza non è sempre sinonimo di correttezza. Il Giappone di adesso non ha nemmeno una minima idea di cosa significhi il termine “bellezza nazionale”, vero?

• Sasaki Maki: Cosa intendi per “bellezza nazionale”? Ti riferisci ai fattori che rendono esteticamente bella la nostra nazione?

• Seiichi Hayashi: Esattamente, ma non solo esteticamente. Supponiamo di avere un oggetto e di illuminarlo con un fascio di luce, in maniera tale che questo generi un’ombra: possiamo provare ad aggrapparci alla proiezione di tale figura, ma al momento non siamo in grado di intravedere l’oggetto in sé, l’idea originale. Più o meno questa è una parabola della nostra società. Tantissime persone investono speranza nello stato, tuttavia, finché continuiamo a focalizzarci su un qualcosa di materialmente e moralmente astratto, non andremo da nessuna parte.

• Sasaki Maki: In parole povere non possiamo riuscirci (ride).

• Seiichi Hayashi: Non possediamo i criteri estetici per riuscirci.

• Sasaki Maki: Eppure le famiglie di quest’epoca che convivono sotto lo stesso tetto sembrano impegnarsi così tanto per restare unite, tutto ciò al fine di dare in mano alla progenie un futuro migliore.

• Seiichi Hayashi: Il termine “nazione” è formato dalle parole “paese” e “famiglia”, giusto? Di conseguenza la famiglia svolge un ruolo centrale nel garantire lo sviluppo statale, è praticamente l’ipocentro dell’evoluzione. Hai ragione, nonostante ciò, se posso essere sincero, la minaccia della guerra, seppur lontana, si fa ancora sentire nel nostro paese. Per farti un esempio: noi giapponesi abitiamo in un castello di sabbia.

• Sasaki Maki: È da un po’ di tempo che rifletto su questo concetto, non vorrei sembrare troppo duro, ma a mio parere noi giapponesi dovremmo sforzarci di non pensare alla famiglia o alla nostra nazione. È vero, sembra una cosa estremamente sciocca da dire, tuttavia dovremmo impegnarci a vivere in sincronia con la nostra quotidianità, senza dar peso alla minaccia passata. Mi sembra come se il Giappone stesse cercando di aggirare il problema di una guerra passata e non di cancellarlo dalle menti dei propri cittadini. Capisci cosa intendo?

• Seiichi Hayashi: Esattamente, anche se penso che tutto ciò possa variare da persona a persona: questo sentimento dipende dal nostro rapporto familiare. Effettivamente è come se il cittadino considerasse lo stato come un unico organismo e non come un mosaico. Garantire il bene nazionale è giusto, tuttavia concentrando troppa speranza in un piano simile si finirebbe inevitabilmente per dimenticare le regioni che questo comprende e dunque, al tempo stesso, i suoi abitanti.

• Sasaki Maki: Dunque ritieni che una volta scavalcata questa problematica possa germogliare un seme più sano?

• Seiichi Hayashi: Non esattamente. Il seme lo abbiamo già, non resta che innaffiarlo.

• Sasaki Maki: A quel punto tutto diventerebbe uniforme.

• Seiichi Hayashi: Proprio così.

• Sasaki Maki: Una poesia di Gan Tanigawa recita: “Non andare a Tokyo, crea la tua città natale”.

• Seiichi Hayashi: In questi anni la vita tokiense è probabilmente la più agiata. Sono nato e cresciuto a Tokyo e non ho mai incontrato gravi problemi, tuttavia vi è anche un po’ di tristezza in un’esistenza simile.

• Sasaki Maki: Kobe rispetto a Tokyo non è nulla: la nostra cultura personale è ancora troppo debole se paragonata con la vostra.

• Seiichi Hayashi: Pensi sia colpa della posizione geografica o della popolazione?

• Sasaki Maki: Sicuramente la popolazione. Kobe è una città ricca di stranieri e sono veramente poche le persone che fin da bambine hanno vissuto nella zona.

Living in the 1960s

• Sasaki Maki: È sicuramente un qualcosa che varia da generazione a generazione, oppure da stato a stato, per esempio: è ovvio che uno studente giapponese non possegga gli stessi interessi di un giovane europeo, nonostante ciò, sento come se gli anni che stiamo vivendo ora legano in un qualche modo culture così differenti.

• Seiichi Hayashi: Non ci faccio molto caso, sono una persona abbastanza chiusa in sé stessa.

• Sasaki Maki: Ho degli amici statunitensi fedeli alla cultura hippy e, quando ho mostrato loro il mio “A Dream in Heaven”, mi hanno detto di averlo compreso. Persino i giapponesi hanno faticato – o non ci sono proprio riusciti – a capire le mie trame, eppure degli stranieri ci hanno visto qualcosa. Questa cosa mi fa letteralmente impazzire.

• Seiichi Hayashi: Sfortunatamente non ho amici al di fuori del Giappone, mi viene dunque difficile ottenere un’opinione simile.

• Sasaki Maki: Capisco.

• Seiichi Hayashi: Mi viene da sorridere: io e te apparteniamo praticamente alla stessa generazione, eppure nessuno potrebbe capirlo solamente guardandoci; sono le nostre dichiarazioni, i nostri pensieri ad identificarci.

• Sasaki Maki: È vero. A me piacciono i romanzi di Kenzaburō Ōe, perché a volte l’autore decide di inserire dei giovani delinquenti fra una pagina e l’altra. Ecco, conoscendomi farei subito amicizia con soggetti del genere (ride).

The Energy of the Beatles

• Seiichi Hayashi: Solitamente, quando guardo un film con una trama logica e monotona, tendo ad annoiarmi. Adoro invece, per esempio, i film interpretati dai Beatles, possiedono una forza impressionante e, molto spesso, assumono anche un aspetto comico. Improvvisamente, mentre ti stai godendo la trama del film, parte una canzone; ti domandi subito: “Cosa?”, eppure è una strategia che funziona, inimitabile.

• Sasaki Maki: La prima volta che ho visto un film sui Beatles mi sono messo a piangere, non riuscivo a capire se piangevo dal ridere o perché il lungometraggio mi stava trasmettendo qualcosa di grosso.

• Seiichi Hayashi: Hai mai visto “Help!”? La scena del bagno?

• Sasaki Maki: L’ho adorata (ride).

• Seiichi Hayashi: Una volta ho visto gente che urlava davanti allo schermo il nome dei Beatles, proprio come durante gli spettacoli kabuki la platea urla il nome di “Narukami” (un’opera classica degli spettacoli kabuki. In questo caso, tuttavia, Seiichi Hayashi potrebbe essersi confuso: il nome “Narukami” viene infatti anche esclamato per non recitare l’opera; il motivo dietro tale azione affonda le sue radici nel folklore nipponico).

• Sasaki Maki: Successivamente, però, ho come l’impressione che questa energia dirompente sia pian piano evaporata.

• Seiichi Hayashi: Può darsi. Dimenticatene, continua a pensare al passato.

• Sasaki Maki: Vedi, penso che l’energia dei “Beatles” fosse di stampo nichilista: non davano peso a nulla, si limitavano semplicemente a recitare la loro parte.

• Seiichi Hayashi: Dici che era questo il motivo che alimentava le loro personalità ai tempi d’oro?

• Sasaki Maki: Proprio così.

• Seiichi Hayashi: Non sono del tutto convinto, voglio dire, loro facevano musica no? Facevano musica e basta (ride).

• Sasaki Maki: Non posso dirti nulla, hai perfettamente ragione (ride).

• Seiichi Hayashi: Molti vedono nei Beatles degli eroi, io non la penso in questo modo, sono una semplice band musicale, una semplice band musicale che ha saputo farsi conoscere.

• Sasaki Maki: Secondo me non sono più, ora come ora, i portavoce della gioventù.

• Seiichi Hayashi: Davvero? La pensi così? Io non saprei dirti. Sono abituato ad etichettare come “portavoce” non un solo gruppo, bensì più gruppi e più persone.

• Sasaki Maki: Capisco, preferisci avere uno schema completo sotto gli occhi. Tuttavia c’è stato un periodo in cui la musica dei Beatles rappresentava un’intera generazione, capisci? Altrimenti non sarebbero potuti diventare tanto famosi.

• Seiichi Hayashi: Hmm…

• Sasaki Maki: Lo so, è strano. Tuttavia la loro musica riusciva veramente a connettere le persone.

Enka – Children’s Songs, War Songs

• Seiichi Hayashi: Sasaki cosa ne pensi della musica enka?

• Sasaki Maki: Mi piacciono molto le canzoni di Saburō Kitajima e di Miyako Harumi.

• Seiichi Hayashi: Intendi i loro primi successi?

• Sasaki Maki: Sì, ma non solo. Non mi vanno a genio le ultime canzoni di Miyako Harumi, preferisco di gran lunga le sue prime composizioni, tuttavia mi sono innamorato di “Ferry of tears”. Di Kitajima Saburō invece apprezzo praticamente tutto, mi piace la sua tipologia di enka.

• Seiichi Hayashi: Capita spesso quando si discute di musica enka che qualche persona affermi di essere affascinato solo ed esclusivamente dalla personalità di un particolare autore e non da un suo titolo. Con questo tipo di ragionamenti non vado affatto d’accordo.

• Sasaki Maki: Concordo con la tua affermazione.

• Seiichi Hayashi: A me piacciono molto ad esempio “Overflowing Petals” di Yūjirō Ishihara e “The Crying Migrating Bird” di Kiyoko Suizenji.

Sasaki Maki: Dei classici.

• Seiichi Hayashi: L’enka dell’era Taisho, secondo me, era una tipologia di musica piuttosto malinconica e talvolta triste. Non ho ben presente al momento il titolo del brano, ma ricordo che questo citava una composizione del tenente Ogawa, la quale diceva chiaramente: “I fiori di ciliegio cadono dai rami degli alberi ancora prima di aspettare la primavera”. È palesemente un richiamo alla guerra, la quale, non bisogna dimenticarlo, ha avuto un grande impatto su questo genere musicale.

• Sasaki Maki: È sorprendente notare come l’enka oscilli fra canzoni di guerra e cantilene per bambini. Alcune ninne nanne sono veramente spettacolari.

• Seiichi Hayashi: Sì, ma alcune sono anche alquanto inquietanti (ride).

• Sasaki Maki: La musica enka è bizzarra: non assume uno specifico significato finché qualcuno non gliene attribuisce uno. Un autore enka è fondamentalmente “vuoto” quando canta, spetta al pubblico comprendere i brani. Simile ai manga, non trovi?

• Seiichi Hayashi: Hai mai ascoltato “If I Go Away to the Sea” del 1937? È un brano sui kamikaze, ogni volta che lo sento divento triste. Noi giapponesi siamo abituati a conservare i ricordi spiacevoli – anche se non li abbiamo vissuti in prima persona – all’interno di noi stessi per sempre, più ci riflettiamo e più questi diventano acidi e pesanti.

• Sasaki Maki: Esattamente, le canzoni enka sono così: appiccicose. Tuttavia penso che i brani di guerra non svolgano la funzione che dovrebbero svolgere.

• Seiichi Hayashi: Pensi che in realtà dovrebbero avere una funzione terapeutica?

• Sasaki Maki: L’obiettivo è proprio quello.

• Seiichi Hayashi: Ciò è veramente possibile solamente udendo una melodia?

• Sasaki Maki: La melodia non cambia, devono essere le persone a mutare. Torniamo sempre a ragionare su questo punto.

Cosa dovremmo aspettarci dal futuro? – “Darò un pugno al lettore!”

• Sasaki Maki: Caspita! Che domanda! Oserei quasi dire che farò ciò che mi sentirò di fare (ride). Io passo!

• Seiichi Hayashi: Come ha detto Sasaki: mi lascerò trasportare dalle mie idee.

• Sasaki Maki: Il punto è uno solo. Quando lavori devi pensare a due cose contemporaneamente: a soddisfare il palato del lettore e a crescere, creare fumetti è sinonimo di crescita personale.

• Seiichi Hayashi: Bella frase, tuttavia ammetto di essere al momento senza idee (ride). Mi permetterei di aggiungere alla tua risposta un qualcosa di forse scontato, ma comunque importante: un manga deve essere sorprendente, deve avere un impatto enorme sul lettore. Leggere un’opera è come andare a teatro o al cinema, nessuno, nel momento in cui prende posto, ha un’idea concreta di ciò che sta per osservare.

• Sasaki Maki: Ah! Sì! Cerco sempre di dare uno schiaffo al lettore. Ogni mia pagina simula un pugno in viso: alla fine della lettura il pubblico giace a terra in un bagno di sangue (ride). Un metodo funzionale, non trovi?

• Seiichi Hayashi: Ho avuto la stessa sensazione quando lessi “A Dream in Heaven”. Supponiamo che il lettore si aspetti qualcosa dalla tua opera che poi successivamente non ottiene, non può rimanere comunque in nessun modo deluso e ciò grazie alla tua abilità nel distorcere la narrazione.

• Sasaki Maki: Sono molto felice di sentirtelo dire. Ammettiamolo dai, gli avvenimenti scontati non piacciono mai a nessuno; cadere nella normalità al momento è il mio incubo peggiore (ride). Penso allora che continuerò a strapazzare il lettore finché riuscirò ad impugnare una matita.

• Seiichi Hayashi: Il tuo è un punto di vista estremamente interessante e originale. Anche io disprezzo in maniera più assoluta la convenzionalità: è così rigida e schematica. Sono fantastici i colpi di scena, aggiungono un pizzico di pepe alla lettura dopotutto; sarebbe per esempio una vera e propria sorpresa concludere questa discussione così, in questo modo! (ride).

• Sasaki Maki: (ride).

Un giovane Seiichi Hayashi (a sinistra) e un Sasaki Maki ragazzino (a destra).

🌐 Fonte principale: The Comics Journal

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