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Opus: la metanarrazione onirica di Satoshi Kon

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Immaginate di essere gli autori di un’opera qualunque, di un manga, per esempio. Dare alla luce un nuovo progetto e creare qualcosa di originale ha spesso i suoi oneri: disegnare sino a notte fonda e, quindi, dormire pochissimo; rispettare le scadenze; attenersi alle direttive e alle linee guida del proprio editor. D’altra parte, però, si dà forma a qualcosa per intrattenere il pubblico, si descrivono e caratterizzano vicende, personaggi, luoghi e si dà libero spazio alla più sfrenata fantasia. Tuttavia fare il mangaka non è affatto semplice: per creare una storia sono necessarie delle scelte e non è sempre intuitiva la prospettiva migliore. E se un vostro personaggio, un disegno creato dalla vostra stessa mano, si dovesse ritorcere contro di voi per una scelta che gli risulta avversa? Cosa succederebbe?

Questo potrebbe essere un ottimo inizio per la recensione di Opus, perla del compianto genio Satoshi Kon. Parlare dell’autore, conosciuto soprattutto per i suoi film, come Paprika, Perfect Blue e Millenium Actress, risulta spesso difficoltoso a causa della complessità dei temi trattati. Conoscere il Kon mangaka risulta essenziale al fine della ricerca del significato profondo delle sue opere cinematografiche. L’influsso creativo che l’artista getta nella realizzazione dei suoi manga fa da pronao per la stesura delle sue opere successive, è la via privilegiata attraverso cui comprendere alcuni concetti fondamentali delle sue opere, come quello del sogno. E Opus, molto probabilmente, rappresenta il suo magnum opus se si considera la carriera da mangaka.

Dentro l’opera

Opus trova la sua serializzazione nel 1995 sulla rivista Comics Guys, magazine per adulti che fallirà l’anno successivo l’avvento dell’opera di Satoshi Kon, portando, quindi, quest’ultima a non avere un vero e proprio finale. L’opera venne raccolta in due volumi soltanto nel 2010, grazie a Tokuma Shoten e sotto la rivista Ryu Comics. Questa versione contiene, inoltre, l’ipotetico finale dell’opera, che Kon non ha mai pubblicato perché impegnato con la realizzazione di Perfect Blue. L’intricata questione sul finale dell’opera troverà approfondimento più avanti in questo articolo.

La genialità dell’opera in questione si intuisce fin dal primo capitolo: l’artista utilizza la meta-narrazione come espediente narrativo per trattare tematiche a lui care, in primis il sogno, l’intreccio della realtà con il reame onirico. Imbevuta in uno stile fortemente ispirato a Katsuhiro Otomo, con cui Kon ha collaborato diverse volte, Opus è un’opera che non solo perlustra a fondo i meandri della mente e della realtà umana, ma anche quelli dello schema narrativo convenzionalmente interpretato.

Portare avanti un lavoro…

Cosa significa Opus? Già soltanto il titolo presenta un’introduzione al tema prevalente dell’opera: il lavoro dell’artista. Infatti, opus (in giapponese, オーパス) in latino significa letteralmente opera, lavoro. Innanzitutto Satoshi Kon, attraverso la figura di Chikara Nagai, ci introduce nell’atmosfera in cui l’autore di manga è costretto: un ambiente teso, angoscioso a causa degli aliti sul collo dei vari editor accompagnati da deadlines varie e pieno di figure bizzarre e crucciate dalle occhiaie marcate, piegate sulla marea di pagine da inchiostrare. Il manga, inoltre, si rivela essere un’efferata critica sociale al mondo dell’editoria sempre più caotico ed attaccato ai soldi.

Ma Opus non è solo questo. L’opera avvalora e quasi inneggia alla figura dell’artista, che, lavorando senza sosta, dona vita a bozzetti colorando scenografie e creando storie variopinte e talvolta crudeli. L’autore ha il privilegio di creare un mondo, di divenire un dio quindi. Il che diviene ancora più mistico ed interessante se prendiamo atto del fatto che ognuno di noi può divenire autore creatore della sua opera. Ma l’autore non è un burattinaio fuori dagli schemi, autonomo e perfetto. L’autore prova emozioni, vive esperienze, riflette ed arriva a delle scelte, scelte che la maggior parte delle volte sono dettate da fattori più o meno esterni, come le stesse risonanze ed echi di quel passato o per meri fini d’intrattenimento o lucro maggiore. Questa è la debolezza dell’autore, il quale potrebbe essere sopraffatto dai sentimenti e perdere il controllo, bloccandosi e facendosi addirittura controllare dai propri personaggi.

Opus è l’opera con cui Kon arriva ad interrogare se stesso su cosa significa essere un autore e il peso che ne deriva. Ironicamente il manga è anche il magnum opus dell’autore: un’opera molto corta ma che apre varchi enormi su numerosi argomenti delicati.

La meta-narrazione come artificio narrativo

Che cosa si intende per meta-narrazione? Umberto Eco avrebbe risposto alla domanda dicendo che la meta-narrazione è la capacità del romanzo di riflettere su se stesso, ovvero un artificio narrativo e strutturale, prominente nel postmoderno, che consente un coeso rapporto tra autore e opera. In un’opera meta-narrativa l’autore interagisce direttamente con ciò che sta producendo, spezzando il ritmo e il tempo in uno stacco che può risultare talvolta fuorviante. Utilizzare l’espediente metanarrativo non è semplice e soltanto geni del calibro di Ende e Foster Wallace sono riusciti a cristallizzare perfettamente tale tecnica nei loro scritti.

Un’opera sperimentale con cui approcciarsi ai lavori di Kon, Opus si immerge sempre più in profondità nei mondi della meta-narrazione e della coesione tra creatore e creazione nelle forme d’intrattenimento.

Dipartimento editoriale di Ryu Comics

Con disarmante naturalezza, Kon si avvale di tale artificio per mobilitare la narrazione sui temi più innervati della sua discussione filosofica. Attraverso la spaccatura (che nel manga è rappresenta proprio da un vetro infranto) tra opera fittizia e realtà Kon inizia a disquisire intorno al tema del sogno e dell’arte. L’interazione di Chikara Nagai con la sua stessa opera, Resonance, finisce per creare un disequilibrio nelle menti di tutti i personaggi dell’opera. Kon, con il suo talento, è stato capace di utilizzare questo affascinante quanto pericoloso filtro per toccare varchi mai superati. Che cos’è la realta? E che cos’è la finzione? Cosa succede se il creatore di un’opera si ritrova ad interagire con ciò che ha creato?

Tre livelli narrativi differenti: la fantasia nella fantasia nella fantasia

Come preannunciato, Satoshi Kon utilizza ingegnosamente e con grande maestria la meta-narrazione, facendo incrociare diversi mondi senza mai risultare scadente e privo di idee. In questa parte si analizzerà l’apporto della metanarrazione sullo spazio dell’opera. L’autore, creando varchi misteriosi, riesce a far saltellare i propri personaggi da una dimensione all’altra, stordendoli ogni volta che ciò accade. Ogni spazio narrativo ha i suoi eroi eponimi, ovvero i protagonisti.

Resonance, il mondo di Satoko Miura

Opus inizia con un altro fumetto. Nelle prime pagine, infatti, assistiamo agli eventi di Resonance, famoso manga di spionaggio del brillante mangaka Chikara Nagai. Pubblicata su Young Guard, la storia è incentrata su una serie di misteriose scomparse che hanno portato Satoko, agente dell’Unità Speciale di Investigazione nonché esper dai poteri nascosti, a seguire l’intricato caso. Poco dopo l’inizio delle indagini, la protagonista si imbatte in una minacciosa setta, chiamata Nameless Faith, che controlla il sempre più costante circolo di droga sviluppatosi nel paese. L’agente non sa in che incubo sta per imbattersi e le forze maligne della Nameless Faith, capeggiata dall’enigmatica figura de “La Maschera“, tramano nell’ombra…

Siamo alle battute finali e il capitolo davanti agli occhi del lettore è il 24°, la terza parte: La maledizione della maschera. Il capitolo vede un furioso scontro tra “La Maschera”, sempre più affamato di potere, e Satoko, in pericolo a causa delle enormi capacità psichiche della controparte. Il tutto sembra essere perduto, ma a salvare la ragazza arriva Lin, un esper esperto pronto a distruggere il dominio del nemico. Dopo nove adrenalinici volumi, il capitolo successivo segnerà l’epilogo della fortunata serie. Cosa potrà mai succedere?

Opus, il mondo di Chikara Nagai

Dopo l’ultima pagina di quello che è il penultimo capitolo di Resonance, veniamo proiettati in un bar, dove Chikara Nagai, il mangaka della serie nonché nostro protagonista, discute con il proprio editor riguardo al finale da dare alla serie. La scelta dell’artista è perentoria: il finale vedrà la morte di Lin. Una decisione ardua, dal momento che la vittima è uno dei personaggi preferiti dai lettori. Di ritorno a casa, Chikara e i suoi assistenti ultimano il capitolo finale della serie: mancano gli sfondi e poi tutte le tavole saranno complete. Tuttavia, durante la profonda e stressata nottata, il mangaka perde la tavola della morte di Lin e si accorge che al posto del disegno vi è una cavità chilometrica. Al fondo di essa si scorge una minuscola figura: è Lin e ha in mano la tavola appena disegnata dal mangaka.

Chikara casca all’interno dell’interminabile baratro e si ritrova improvvisamente a calpestare “La Maschera”. Il contatto tra mondo reale e opera fittizia è ufficialmente avvenuto. L’artista è entrato dentro la sua opera e l’equilibrio dei due mondi inizia ad infrangersi. Qual è la realtà? È tutto un sogno? Quella di Chikara non è pazzia dovuta alla più totale mancanza di ore di sonno, il mangaka sta interagendo con i suoi personaggi in carne ed ossa in una realtà distorta che ha le fattezze di un sogno ma la tangibilità di ciò che è vivo e reale.

La realtà, il mondo di Satoshi Kon

L’ultimo passaggio amplia ulteriormente il meta-discorso intrattenuto dall’artista nei precedenti capitoli. Questo livello si schiuderà soltanto nel finale dell’opera, o meglio, nel potenziale finale dell’opera, che Kon scrisse qualche anno dopo ma che decise di non pubblicare mai. La diramazione della fantasia stavolta tocca la realtà stessa, la nostra realtà, senza alcun tipo di filtro. Il protagonista quindi è il vero e proprio Satoshi Kon, preoccupato dell’improvvisa conclusione di Opus a causa della repentina chiusura del magazine. L’opera continuerà oppure farà la fine di Seraphim 266613336 Wings?

E mentre l’angosciato Kon discute con il suo editor e con se stesso intorno a ciò che concerne questi problemi, dalle pagine di Opus esce proprio Chikara Nagai, innervosito dal comportamento reticente ed insensibile di Satoshi Kon. Un ulteriore contatto finale tra il regno del sogno e dell’irrealtà e quello della realtà. Qual è il vero mondo? Sono davvero due mondi così distinti?

Passato e presente in volumi differenti

Oltre ai vari salti tra livelli diversi di realtà, operati prima da Nagai nel mondo di Opus e poi dalla stessa Satoko nella realtà, Kon introduce un altro tema rivelatosi spinoso per moltissimi altri autori: i viaggi nel tempo. Quindi, oltre a distorcere la realtà spaziale, l’autore spezza anche l’equilibrio temporale. E lo fa servendosi dei tankōbon stessi.

Il tutto inizia a corrompersi quando Lin decide, di sua iniziativa, di disobbedire al creatore dell’opera, commettendo quasi un atto di hybris, e rubando la tavola. Da qui la spaccatura è irreversibile e Chikara sarà costretto a subire passivamente la forza e la volontà dei suoi personaggi, in scene da lui mai illustrate.

A spasso per il tankōbon 

Lin ha un piano per sopraffare il destino avverso: tornare indietro nel tempo, utilizzando i buchi di trama dell’opera, e distruggere “La Maschera”. Il fuggitivo, però, viene ritrovato, attraverso uno geniale stratagemma, da Satoko e Chikara. Il ladro della tavola riesce, tuttavia, a farla franca mentre l’agente e l’impacciato e ancora frastornato mangaka si trovano circondati da un esercito di “believers“. Lin, animato dalla volontà di difendere Satoko a tutti i costi, interviene in un salvataggio che ha del miracoloso ma che porterà a drastici eventi. Tuffandosi nel vuoto, riuscirà a tornare nel passato. Ma non sarà l’unica preda del buco nero formatosi nell’opera, verrà risucchiato pure Nagai, che tornerà nella realtà. Da qui riuscirà a salvare Satoko, intromettendosi dall’alto della sua postazione. L’agente si ritroverà, sbalordita, nel mondo degli umani e uscita di nascosto in esplorazione troverà Lin nascosto nel primo volume…

La situazione si fa drastica perché la presenza di Lin all’interno dell’esordio di Resonance è un’anomalia, ma questo non è l’unico pericolo. Il rischio si incrina a causa del blocco del mangaka, della sua volontà di concludere il suo lavoro senza donargli un degno finale. La vera minaccia è dentro al volume. I due personaggi, quindi, decidono di rientrare nel mondo creato da Nagai, ma davanti ai loro occhi si para presto una realtà terrificante: il mondo di Resonance si sta dissolvendo a causa della volontà del mangaka. Poco dopo, Satoko e Chikara verranno risucchiati in questo buco luminescente…

A spasso con il tankōbon 

Proprio in questa sezione del’opera Kon dimostra di saper utilizzare in modo più che originale il viaggio nel tempo. Chikara si risveglia in un luogo completamente bianco e vuoto, proprio come una tavola ancora da illustrare. Ad aiutarlo troverà Mei, la sorellina di Lin, che donerà al protagonista la penna perduta qualche capitolo prima. Avvalendosi della stessa strategia utilizzata prima, Chikara disegnerà Satoko, che, dopo qualche minuto, ritornerà in vita. Si è tornati alla normalità, ma come uscire da questo posto tanto esteso quanto opprimente? Tempo di disegnare un dragone come destriero e i tre si imbattono in qualcosa di insospettabile: il primo capitolo di Resonance.

Da questo momento in poi la narrazione assume un connotato geniale. Chikara, Satoko e Mei inseguono Lin, affamato di redenzione ai danni de “La Maschera”, all’interno del primo volume avvalendosi del primo volume. Kon decide di mostrarci il deprimente passato di una storia, quella di Satoko, iniziata in medias res. La storia scritta nel primo volume incarna quasi una profezia per l’avvenire degli eventi e può essere un’arma per sfruttare i movimenti e le azioni dei vari personaggi. Ciononostante la volontà e l’autonomia dei personaggi interagenti nelle pagine dell’opera ha fatto sì che alcune scene trovassero una variazione rispetto all’originale. Il volume, che finirà anche nelle mani sbagliate, rappresenta il metro di paragone con la divergenza venutasi a creare tra opera e realtà.

L’autore riesce a sfruttare il canone del viaggio nel tempo senza cedere alle pressioni del paradosso temporale, ma, anzi, usando queste per cesellare il suo discorso filosofico.

Dissonanza cognitiva tra sogno e realtà

L’opera di Kon ha sempre trovato il suo punto chiave nella discussione intorno ai sogni. Questi, in Opus, rappresentano soltanto il preludio dell’argomento principale. La tematica viene coadiuvata dall’afflusso della metanarrazione che riesce sempre a sbalordire i personaggi dell’opera nonché il lettore. “Viviamo in una finzione?”, è questo l’interrogativo che più emerge nella mente dei protagonisti, che vivono su un filo leggerissimo che separa opera e realtà. Attraverso l’introduzione di due personaggi provenienti da mondi alieni in realtà adiacenti, Kon approfondisce il tema. Qual è la realtà di Chikara Nagai e quale quella di Satoko? Quale delle due è più vera? L’autore riesce ad amalgamare in modo talmente coeso i due mondi che il tutto viene inghiottito in un prospettivismo senza fine.

Vivere un’illusione e sognare farfalle

I personaggi, ogni volta che entrano in un mondo inesplorato, sia esso reale o fittizio, si chiedono subito se tutto sia un sogno, dal momento che è quanto più tangibile la spaccatura di quel divario che divide i mondi. Ma in realtà non v’è dissonanza, non v’è finzione. Entrambi i mondi sono veri e sussistono in relazioni salde e reciproche. Distinguere nettamente i due universi non porta ad altro se non ad un distruttivo rompicapo. Ma allora viviamo in un sogno? L’opera risente di un intenso effluvio schopenhauriano in questo senso: la realtà fenomenica difficilmente è scindibile da quella onirica, viviamo in un’illusione.

La vita e i sogni sono fogli dello stesso libro: leggerli in ordine è vivere, sfogliarli a caso è sognare.

Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione

Questa frase del filosofo tedesco è impressa nell’opera, così come in tutta la vastissima tradizione filosofica orientale, che non acconsente a trovare un nesso causale nella scissione tra sogno e realtà se sogno di essere una farfalla, al mio risveglio sono io che ho finito di sognare di essere una farfalla o una farfalla che ha iniziato a sognare di essere me? Kon si addentra nei meandri di questa dissertazione e condensa il tutto aggiungendo letteralmente un’opera, Resonance, che sostituisce il reame onirico ma che è instaurata sugli stessi concetti dal momento che viviamo in un sogno.

La surreale leggenda dell’artista sognatore

Non c’è sognatore più grande che l’artista. Dare vita ad un’opera significa sognare, ovvero scavare dentro di sé ed estrapolare il materiale necessario per creare qualcosa prima inesistente. Senza ricordi, rimpianti ed esperienze non può esserci l’arte ed è questo l’indissolubile legame che sussiste tra arte e sogno. L’opera non è nient’altro che la cristallizzazione dei sogni e dei desideri dell’artista. Un’artista, dopotutto, è “un sognatore che acconsente di sognare il mondo reale”, come avrebbe detto George Santayana.

Il sogno è quella produzione psichica che ha luogo durante il sonno ed è caratterizzata da immagini, percezioni, emozioni che si svolgono in maniera irreale o illogica. O, per meglio dire, possono essere svincolate dalla normale catena logica degli eventi reali, mostrando situazioni che, in genere, nella realtà sono impossibili a verificarsi.

Salvador Dalí

La visita di Satoko nel mondo “reale” mostra come il suo mondo sia una vera e propria risonanza degli elementi presenti nella realtà dell’autore e ciò è giustificato dal fatto che l’esper sia totalmente ispirata alla fidanzata di Chikara, Kanae. Da qua si spiega il morboso attaccamento del mangaka nei confronti della ragazza illustrata. Inoltre, anche l’incontro “mentale” tra “La Maschera” e Chikara è significativo. Analizzando il passato dell’autore si riesce a comprendere la scelta di un antagonista simile: un personaggio che deriva dal malessere giovanile dell’autore. Anche questo rafforza il comportamento empatico dell’artista verso ogni sua creazione, che diviene un ricordo, un’esperienza personale e quindi la persona stessa. Resonance è, quandi, il sogno di Chikara Nagai. Ma in che misura l’autore è in grado di controllare i propri sogni?

Che cosa significa essere autore?

Culmine di Opus, questa domanda segna la disquisizione apicale dell’opera. Più volte emerge la parola “Creatore” ed essa spesso è parafrasata in modo diverso. Satoshi Kon mostra come Chikara Nagai sia praticamente il Dio della propria opera e come questo influisca sulle emozioni dei personaggi da lui creati, tra accettazione passiva e ribrezzo aggressivo. L’artista è qualificabile come Dio e attraverso le sue idee e la sua arte trascende la realtà e crea qualcosa che solo lui riesce a controllare. Ma è davvero così?

Un mondo in costante evoluzione…

In fondo il mondo è fatto per finire in un bel libro.

Stephane Mallarmé

Quello che sorprende di Opus non è soltanto la narrazione degli eventi (che in questo caso assume un’accezione diversa dalla vera e propria trama, la quale, seppur molto semplice ed impostata su un canone classico, trova forti punti di suspense: basti pensare a chi davvero si cela dietro la maschera), ma anche lo stile. Alcune scelte stilistiche dell’autore edulcorano ulteriormente il messaggio profondo dell’opera.

Prima di addentrarci nella vera e propria disquisizione attorno all’autore-Dio è necessario osservare alcune delle geniali idee che Satoshi Kon ha distribuito nella sua opera. Alquanto interessante è la scena delle bozze: i personaggi, ora slegati dai fili invisibili dell’autore trascendente, si imbattono in una città fatta di cartone, una skyline mai ultimata e quindi sempre pronta a cadere. Questa fa da sfondo all’invasione delle bozze, personaggi non delineati che si scontrano con i protagonisti. Questi sono i rimasugli mai inseriti nell’opera, gli scarti, le prove, delle vere e proprie bozze. Così come è altrettanto geniale ed intelligente la capacità d’interazione dell’autore nella sua opera: Nagai può disegnare qualsiasi cosa nella sua opera ed essa apparirà, il che evidenzia ancora di più l’identità tra volere e potere dell’autore.

Il tutto culmina con la rottura e la distruzione del mondo. L’artista impazzisce e si blocca, arriva addirittura a ripudiare la sua stessa opera ed essa inizia a dissolversi, a corrodersi. Satoshi Kon mostra allegoricamente cosa succede quanto l’autore smette di desiderare di proseguire con la sua opera. Un’opera non finita è un’opera che si dissolve.

Il paradigma del funesto demiurgo e del buon burattinaio

Non è complicato osservare come all’interno dell’opera nasca una guerra per diventare Dio, combattuta a causa dell’aspirazione perversa de “La Maschera”. L’antagonista pretende di diventare Dio controllando la mente di tutti coloro che risiedono nel mondo di Opus attraverso i suoi potenti poteri psichici, quindi per semplice presunzione egoistica. Dall’altra parte Kon pone un essere molto più forte di qualsiasi capacità mentale o fisica, l’autore dell’opera, Chikara Nagai, un impacciato omuncolo divenuto mangaka a causa di traumi e turbe giovanili. Lui è Dio, perché onnisciente e in grado di plasmare la realtà circostante a suo piacimento. Si instaura così una guerra quasi zoroastriana, tra un Chikara Nagai-Ahura Mazda, che cerca di proteggere tutti i suoi personaggi perché parti di se stesso, e La Maschera-Angra Mainyu, ombra nata da un sentimento dirompente ed oscuro dell’autore. Chi avrà la meglio? Sarà l’autore a controllare l’opera oppure l’opera a controllare l’autore?

Il Dio-autore non è soltanto intorpidito nella sua opera, ma anche nella realtà trova limiti fattuali. Come Kon ci mostra ripetutamente, Chikara Nagai, nella preparazione della sua opera, non è mai da solo, ma è sempre accompagnato da qualche assistente o qualche editor. L’autore non è unico e forse il mondo del manga (e non solo) non conosce monoteismo. Il lavoro dell’autore è segnato da influenze intestine, provenienti dai meandri della sua psiche (e forse quelle più letali), così come da scelte che non sempre operano nella direzione prefissata, premesse esterne e desideri altrui. E se all’inizio può sembrare tutto sotto controllo, più passano i capitoli e più la relazione autore-opera diviene instabile perché marcata da molteplici contatti e volontà astruse.

Basti pensare non soltanto alla severità occorsa nelle scelte dell’editor o nel programma generale della casa editrice, ma anche ai sondaggi e alle chiacchiere che emergono spontaneamente e naturalmente dalle bocche dei lettori. Un’opera si instaura su mille facce diverse e viene colpita da contingenze costanti.

Essere protagonisti, ovvero la critica al determinismo

Una delle varianti più lampanti che si possono intravedere tra opera e vita vera è la presenza di un protagonista. Ovviamente esso non è altro che un trapianto dovuto all’artista, che sceglie uno o più protagonisti, di cui seguiremo le vicende. La conformazione artistica dell’opera crea il protagonista, per necessità di trama e per rischiarire ordine e chiarezza. Nella realtà le cose non stanno così. Nella realtà non c’è un protagonista che gode dei riflettori puntati durante tutta la nostra vita. Il vuoto che deriva da questa fatale mancanza è fuorviante, ma una soluzione c’è e risiede nel comprendere che siamo noi i protagonisti delle nostre vite. L’accettazione del proprio essere aiuta a spezzare i fili del destino ed è il primo passo per distruggere il determinismo.

In Opus il tema è approfondito ed eponimo del libero arbitrio diviene Lin, personaggio secondario che accetta il suo essere protagonista della propria vita e rifiuta il fatidico epilogo che l’artista esterno gli affibbia. Anche Satoko, in un discorso strappalacrime, accetta, non con troppa gioia, il suo essere protagonista, il suo essere privilegiata in senso lato. Il personaggio che rifiuta il proprio destino rappresenta la critica più profonda al determinismo: non siamo burattini mossi da un disegno infallibile ed imprescindibile. E questo trova il massimo paradigma nello strappo della pagina finale.

Dall’altro lato, però, come precedentemente riferito, Kon si serve dei paradossi temporali per vagliare ancora più oculatamente il problema del vortice deterministico. Sfruttando il paradosso della predestinazione l’autore mostra come, anche cambiando la linea causale che lega gli eventi, essi tendano a ripetersi, come se non si potesse far nulla per recidere quel morboso legame con il destino. L’opera, tuttavia, non trovando la sua conclusione rimane a metà strada e trova il giusto equilibrio tra impatto deterministico e capacità di plasmare secondo volontà il filo del fato.

Brusca interruzione o hiatus volontario?

Una delle questioni più controverse che colpisce quest’opera gira attorno al finale. Opus, infatti, non ha una fine, è incompleto. A causa del fallimento della rivista su cui veniva pubblicato, il manga non troverà mai una reale conclusione, dal momento che Satoshi Kon iniziò a concentrarsi sul suo lavoro da regista. Nonostante ciò, a distanza di anni, un finale è stato scoperto. Ed è il degno finale che merita questa opera geniale e poliedrica.

Il protagonista dell’ultimo capitolo è proprio Satoshi Kon, che, stremato, sta discutendo con il suo editor sulle potenziali modalità di pubblicazioni della sua opera dopo che la rivista ha chiuso i battenti. L’artista mostra, con uno stile abbozzato ma originale, quelli che sembra essere il reale accaduto della vicenda. Satoshi Kon diviene Chikara Nagai e non riesce a portare a termine l’opera che narra di un autore che non riesce a portare a termine la sua opera, formando un gioco di specchi folgorante. Il tutto collima con l’intrusione dello stesso Nagai nella realtà: sgattaiolando fuori dalla pagina inizia a fare una lunga ramanzina ad un Kon incredulo e stanco.

Questo è forse il finale perfetto per una serie come Opus. Inoltre, è fondamentale reiterare il fatto che queste tavole vennero realizzate da Kon ma per sua volontà non vennero mai pubblicate. Ciò fa comprendere come dietro ci fosse l’idea di un autore brillante e che Opus, nella sua incompletezza, è un’opera completa. Proprio l’incompletezza risalta i valori che Kon vuole introiettare nella sua opera.

In conclusione

Opus è un’opera unica nel suo genere e, seppur breve, non risente di pecche significative. Satoshi Kon decide di dedicare tutto sé stesso in temi che vengono spesso evitati dalle menti più lucide: tra meta-narrazione, sogni e viaggi nel tempo l’opera si districa in modo eccellente e il tutto risulta un’efficace commistione. In venti capitoli l’autore tocca i temi più disparati, alcuni di essi alla base del pensiero konianoin fase di progressione.

Un manga, passato fin troppo in sordina e meritevole di grandissima attenzione, scritto da una mente geniale e attiva come quella di Satoshi Kon, la cui opera non può essere capita perfettamente senza questo tassello essenziale. La disarmante sensibilità dell’autore si concentra su un tema che spesso passa in secondo piano: il rispetto. Opus è un’esaltazione della figura ragguardevole dell’autore, delle sue scelte e dei suoi personaggi, ed un’incitazione ad essere noi stessi, ad essere protagonisti della nostra vita. Tutto questo rende Opus un vero e proprio cimelio della metanarrazione, un significativo lascito cartaceo di un autore geniale.

Protagonista? Che dire degli altri? Delle persone che sono state ferite o che addirittura sono morte? Tutta la nostra tristezza e il nostro dolore, a cosa è servito? Non è per me, non è per loro. È per te. Noi siamo solo giocattoli con cui giocare. La storia deve necessariamente essere così triste? È per questo che moriamo? Sarebbe noioso se tutti vivessero felici, è per questo motivo che continui a torturarci? Io ho sofferto tutta la mia vita mentre tu hai sofferto soltanto per creare qualcosa di divertente.

Satoko Miura

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