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I pionieri degli anime

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Il primo vero anime al cinema può senza dubbio essere considerato Imokawa Mukuzo genkanban no maki (Imokawa Makuzo il portinaio), la prima opera ufficiale di Shimokawa Hekoten, proiettata nel gennaio 1917 e che venne accolta favorevolmente dal pubblico, anche se l’artista non ne fu pienamente soddisfatto.

Shimokawa aveva realizzato un esperimento basandosi sulla visione delle prime opere occidentali. Fotografò una sequenza di disegni realizzati con il gesso su una lavagna, ma non ebbe gli effetti sperati. Riprovò predisponendo numerose copie di tre diversi tipi di fondali su cui disegnò i personaggi, cancellando le parti che si sovrapponevano.

Per ottenere maggiore omogeneità tra le varie scene, realizzò poi un rudimentale tavolo luminoso che gli causò però un grave disturbo agli occhi, tanto da costringerlo ad un ricovero ospedaliero.

Nello stesso anno presentò altre quattro opere, tra cui Dekoboko shingacho – Meian no shippai (Nuove linee irregolari – Il fallimento di una buona idea), che in realtà rappresenta la sua effettiva opera prima.

Imokawa Makuzo il portinaio (1917)

Altri due celebri disegnatori vengono considerati, insieme a Shimokawa, i pionieri dell’animazione giapponese: Kōuchi Jun’Ichi e Kitayama Seitarō.

Kōuchi Jun’Ichi fu tra i primi ad utilizzare il rodovetro (in inglese cel da celluloide) come frame per le animazioni.

Inventati nel 1914 da Earl Hurd, i cel erano fogli trasparenti in nitrato di cellulosa e canfora, elementi altamente infiammabili in seguito sostituiti da acetato di cellulosa, sui quali veniva riprodotta e dipinta l’immagine animata da sovrapporre ai fondali finti.

A Kōuchi va il merito di essere stato il primo ad utilizzare sfumature di grigio per smussare i contorni delle immagini e creare leggeri effetti di ombreggiatura. Tra l’altro mise in atto tentativi di sonorizzazione dei film e anche figure ottenute in carta ritagliata, più facilmente manipolabili, come nel suo ultimo film Chongire hebi (Il serpente tritato).

La svolta

A Kitayama Seitarō nel 1915 venne affidato il primo progetto animato, l’ormai perduto Saru to kani no gassen (La sfida tra la scimmia e il granchio), che fu presentato solo nel 1917.

Si trattava di un corto realizzato interamente su carta dipinta con un tratto di ispirazione occidentale, anche se trasposto da un racconto tradizionale del quattordicesimo secolo.

Kitayama intuì la necessità di affidarsi ad uno staff competente, grazie al quale le sue produzioni procedevano ad un ritmo molto spedito. Con questo sistema di collaborazione riuscì a girare otto film nel 1917 e ben tredici nel 1918, tra cui Momotarō (Momotaro il ragazzo delle pesche), storia di un piccolo ma leggendario marinaio che pattuglia le coste di Onigashima per difendere gli abitanti dagli oni, una sorta di orchi che vivevano in quell’isola.

Nel 1921 fondò il Kitayama eiga seisakujō (Laboratorio Kitayama per la produzione di film), che può essere considerata la prima casa di produzione indipendente di animazione giapponese.

Kitayama Seitarō, Momotaro il ragazzo delle pesche (1918)

La nascita dell’industria anime

In un clima di fervida creazione, si passò in un attimo dalle primissime sperimentazioni dei pionieri, alla nascita di un’industria vera e propria.

In un fermento acuto, accelerato da una delle più grandi tragedie della storia recente del Giappone, il grande terremoto del Kanto del 1923 che aveva raso al suolo Tokyo e Yokohama causando la morte di oltre centomila persone, si reagì subito con una massiccia opera di ricostruzione architettonica e soprattutto morale.

Accompagnato da una positiva risposta in termini di innovazione e di sperimentazioni, il nuovo mondo dell’animazione contribuì alla ripresa coniugando il progresso tecnologico con contenuti spesso presi dalla tradizione.

Dalle prime proiezioni di animazioni straniere nel secondo decennio del XX secolo, si era reso subito evidente come l’animazione fosse dotata di un peculiare potere di fascinazione, esercitato in particolare sui più giovani. È normale quindi che nel corso della sua lunga storia ci siano stati momenti in cui si è ritenuto necessario regolarne i contenuti o, in alternativa, utilizzarli per diffondere ideologie.

Yamamoto Sanae

Nella confezione di vari corti di kyōiku eiga (film educativi) si inserisce Yamamoto Sanae, figura chiave nella storia dell’animazione giapponese.

A lui si devono Shookurin (Rimboschimento) girato nel 1924 per il Ministero dell’Agricoltura, Yūbin no tabi (Il viaggio della posta) del 1924 per il Ministero delle poste e telecomunicazioni e Baidoku no denpa (La trasmissione della sifilide) del 1926 per il Ministero dell’educazione, che gli finanzierà anche una serie di altri lavori a scopo pedagogico atti ad infondere speranza e fiducia nel futuro del Giappone.

Il primo importante esempio di animazione utile a veicolare un certo ottimismo fu però il suo Ubasute yama (La montagna delle nonne abbandonate), girato nel 1923 e basato su un’antica leggenda giapponese, secondo cui gli anziani venivano abbandonati fino alla morte sui monti perché ritenuti improduttivi per l’economia dei villaggi.

Il film proponeva l’ottimistica figura di un figlio, reticente all’idea di separarsi dalla propria madre, a cui l’interpretazione dei benshi aggiungeva il pathos e la giusta positività.

Un’altra delle opere di Yamamoto oggi rimaste è Nihon ichi Momotarō (Momotaro il Grande) del 1928, che riprendeva il film di Kitayama basandosi sulla storia del leggendario ragazzo.

La prima parte del cortometraggio, non includeva alcuna didascalia prevedendo l’intervento di un benshi per creare la magica atmosfera del racconto originale.

Yamamoto Sanae, La montagna delle nonne abbandonate (1923)

La figura del benshi

Nei primi anni del cinema di animazione, il benshi, una figura già conosciuta in ambito filmico, assunse un ruolo fondamentale. Erano commentatori che, seduti accanto allo schermo e accompagnati da un’orchestra di strumenti autoctoni e stranieri, davano voce ai personaggi e allo stesso tempo descrivevano gli ambienti, le atmosfere, le specificità culturali, influenzando notevolmente la percezione delle opere da parte del pubblico.

La loro funzione non si esauriva nella caratterizzazione dei personaggi e degli ambienti, ma spettava loro anche il compito di spiegare le tecniche filmiche e il funzionamento stesso del proiettore.

Anche se le loro origini risalivano a molto tempo prima della nascita del cinematografo, la loro popolarità fu pressoché immediata, al punto che in breve tempo la maggior parte dei nomi più celebri furono trascritti a caratteri cubitali sopra i titoli dei film in programma.

Inoltre, nel giro di pochi anni, erano diventati così potenti da poter addirittura subentrare nella fase organizzativa della produzione di un film, suggerendo elementi consoni al loro futuro commento.

L’uso di tecniche sperimentali

Opere estremamente originali e all’avanguardia vennero realizzate da Ōfujii Noburo, utilizzando una tecnica particolare che caratterizzerà gran parte della sua produzione.

Egli ritagliava le silhouette dei personaggi su fogli di chiyogami (una carta semitrasparente) che sovrapponeva su un fondale retroilluminato realizzato con lo stesso materiale, filmando il tutto in bianco e nero ed ottenendo così effetti di ombre e trasparenze molto suggestive.

Il suo Bagudajo no tōzoku (La rosa di Bagdad) del 1926, attirò consensi positivi perché, anche se l’artista si era ispirato al lavoro americano The Thief of Bagdad (1924) di Raoul Walsh, la tecnica chiyōgami era in pura atmosfera giapponese, un ottimo escamotage per coniugare le novità di stile con il rassicurante bagaglio culturale della tradizione.

Il film era ambientato in un setting completamente giapponese e narrava la storia di un giovane che, innamorato di una principessa, supera la propria pigrizia e si arma di coraggio per affrontare varie sfide.

Raoul Walsh, The Thief of Bagdad (1924)

Tutte avventure utili per veicolare molti principi morali auspicati dalle forze di governo, come indicava la frase ricorrente:

 «La felicità bisogna guadagnarsela con le proprie forze». 

Anche il suo cortometraggio Mikansen (La nave delle arance) del 1927 fu accolto favorevolmente perché vantava, oltre ad un’animazione molto dettagliata e più raffinata rispetto ad altri lavori dell’epoca, un realistico effetto pioggia.

Il successo delle silhouette

Un altro risultato di successo, nonostante fosse stato concepito con le sole silhouette nere, fu il corto Kujira (La balena), realizzato nel 1927, una favola per adulti che fu esportata in URSS e fu oggetto di un remake a colori nel 1952.

La storia narra del nubifragio di una nave su cui viaggiavano tre guerrieri e una donna; tutti e tre vengono inghiottiti da una balena. Gli uomini sono spinti solo da turpi desideri sessuali verso la donna e sono anche tutti protesi soltanto alla propria salvezza. Una volta risputati dalla balena, si abbatterà su di loro l’ira degli dei e i tre annegheranno, mentre la donna, addormentata sul dorso della balena, sopravviverà.

Ōfujii Noburo, La balena (1927)

La sincronizzazione dell’audio

Nel 1931 con il corto umoristico Kogane no hana (Il fiore d’oro), Ōfujii tentò una doppia sperimentazione, cioè il miglioramento della sincronizzazione di un disco sonoro con la tecnica Tōjō Eastphone e quella del bricromatismo.

Tuttavia, mentre il primo film realmente a colori sarebbe stato prodotto solo nel 1948 (Boku no yakyū/Il mio baseball di Asano Megumi), la sonorizzazione andò a buon fine.

Ōfujii aveva già dimostrato la sua abilità di sincronizzatore con il precedente Kuronyago (I gatti neri) del 1929, una brevissima animazione di appena un minuto e mezzo in cui, sul genere delle Silly Simphonies, quattro bambini e due gatti danzavano su una base musicale tradizionale per l’infanzia, immagini costruite a misura della traccia audio.

Ōfujii Noburo, I gatti neri (1929)

Ōfujii naturalmente non fu l’unico sperimentatore ad emergere in quegli anni. Molti artisti contribuirono ad inserire un tassello nel complesso mosaico della storia dell’animazione, nella maggior parte dei casi nascendo professionalmente dopo un apprendistato nelle file dei primi pionieri.

Il mondo fantastico della tradizione

Tra i nomi di spicco c’è quello di Murata Yasuji, che aveva appreso le basi dell’animazione da Yamamoto Sanae.

Inizialmente disegnatore di locandine e compilatore di cartelli didascalici per film, Murata esordì nel 1926 con il corto Jirafu no kubi wa naze nagai (Perché le giraffe hanno un collo così lungo), eseguito proprio con figure ritagliate (kirie) secondo la lezione di Yamamoto.

A partire da questa prima pellicola fu evidente la preferenza del regista per ambienti e personaggi attinti dal mondo fantastico della tradizione: esseri zoomorfici, divinità e atmosfere fatate non sarebbero mai mancati nelle sue opere future.

Il ricorso al disegno con semplici linee mostrava una certa eleganza nei tratti, mentre l’elasticità mimica e la ricchezza di particolari permettevano una vera spettacolarità delle scene.

La valorizzazione del racconto

Nel 1929 Murata elaborò una delle sue opere oggi più celebri, Kobutori (Rimuovere la protuberanza), con una matura ricchezza di sfumature in linee e molta cura sia nel dinamismo che nella costruzione narrativa.

Il film fa riferimento ad un’antica fiaba in cui due anziani, vicini di casa, hanno entrambi un’enorme protuberanza sulla guancia, ma sono caratterialmente molto dissimili: Tarōhei è un onesto e ligio lavoratore, Jirōhei è pigro ed imbroglione.

Mentre lavora sui monti, Tarōhei viene sorpreso da una tempesta e cerca riparo nell’incavo di un albero, dove si addormenta. Al suo risveglio, in piena notte, si accorge che è in corso una festa di tengu, una sorta di festival dei campi di riso, si unisce ai partecipanti e li diverte danzando, ricevendo come ricompensa la rimozione della protuberanza. Ascoltato il racconto del suo vicino, Jirōhei decide anche lui di unirsi al tengu durante la notte.

La sua danza però non è divertente e, dopo aver tentato anche di truffare i partecipanti, sarà punito ricevendo una protuberanza in più. Una morale in linea con il profilo etico che andava alimentandosi nella Nazione.

Murata Yasuji, Rimuovere la protuberanza (1929)

La prima stop-motion

Nello stesso anno Murata girò un’interessante pellicola a tecnica mista, Tarō san no kisha (Il treno di Tarō), che racconta di un bambino in carne e ossa, che riceve un trenino giocattolo dal padre.

Quando si addormenta, il trenino si anima in stop-motion e comincia il suo viaggio a disegni nel sogno del bimbo. A bordo siedono vari animali, l’unico umano è il capotreno, che ha l’immagine dello stesso bambino; tutti insieme danno vita ad una serie di divertenti sketch animati che servono per indicare alcune norme di comportamento.

La pellicola era sicuramente in linea con i film educativi (kyōiku eiga) auspicati in quegli anni dal governo.

I racconti di Murata

Un altro particolare esperimento di Murata è rappresentato da Saru Masamune (La scimmia Masamune) del 1930, un cortometraggio che celebrava la leggenda dello spadaccino Masamune di epoca Kamakura (1185-1333) a cui tutt’oggi è dedicato il premio per i migliori forgiatori di spade.

Il film narra di un viandante che, nel corso del suo viaggio, difende una scimmia e il suo cucciolo da un cacciatore e per ricompensa viene condotto nel villaggio degli animali dove riceve una spada eccezionale, grazie alla quale diventerà un guerriero invincibile.

L’animazione è messa a punto con figure kirie, ma montate con tale fluidità da farla sembrare una cel animation e arricchita da una sofisticata varietà di angoli e di piani. In una divertente soggettiva, per esempio, colta quando l’uomo guarda intorno a sé con la testa infilata tra le proprie gambe, si osserva il panorama ribaltato e oscillante, mentre l’uomo scuote il capo, con un’interessante ricerca sul movimento.

Il primo film con suono sincronizzato di Murata, Chō no sainan (La farfalla sfortunata) è del 1931 e narra la storia di una farfalla che tenta di recuperare le ali che un topo le ha sottratto.

Seppure molto semplice nelle linee e con poche invenzioni tecniche, servì all’autore per sperimentare una dinamica narrativa completamente svincolata dalla dittatura delle didascalie e dai commenti dei benshi, arricchendosi per contro di varie microazioni che permettevano l’inserimento di suoni e rumori dall’effetto umoristico.

Particolarmente elaborato nella grafica e nella costruzione narrativa è il viaggio onirico di Sankō nel corto Sankō to tako – Hyakuman ryō no chinsodo (Sankō e il polpo – Lotta per un milione di ryō), che Murata girò nel 1933.

La storia è quella di un pescatore pigro ed ubriacone, che un giorno sogna di salpare alla ricerca di un tesoro abbandonato sul fondo marino. Quando trova i pacchi che lo conterrebbero e riesce a tirarne a galla uno, un grosso polpo lo insegue per riappropriarsene. Alla fine si scopre che il pacco conteneva la compagna e i cuccioli del polpo stesso, una lezione utile per Sankō, che comprenderà quanto siano importanti le responsabilità verso la propria famiglia.

Il film contiene anche una curiosità: una breve scena in cui i due polpi si baciano, un aspetto intimo che il cinema dal vero non avrebbe mostrato prima del 1945.

Murata Yasuji, Sankō e il polpo (1933)

Il “Tarzan” di Kenzō

A Masaoka Kenzō si deve la prima animazione in rodovetro (cel animation) e il primo film animato sonoro con vera pista ottica.

Masaoka esordì nel mondo degli anime nel 1930, con il corto Nansensu monogatari daiippen – Sarugashima (Storie di nonsenso n.1 – L’isola delle scimmie).

Nell’opera si vede una nave in balia di un violento temporale attraverso un’accurata descrizione delle metamorfosi delle nubi e delle onde, in toni sfumati del grigio, durante la quale un neonato finisce in mare e naufraga poi su un’isola abitata da scimmie.

Il più anziano del gruppo dei mammiferi, nota che il bambino sembra una scimmia senza coda e, ricordando come in tempi remoti anche la propria specie ne fosse sprovvista, ritiene che sia l’incarnazione di un antenato e comanda alle altre scimmie di allevarlo.

Crescendo però, il ragazzo si rivela dispettoso con gli altri cuccioli e viene per questo esiliato. Dopo un’ennesima marachella, il ragazzo si avventura per mare imbattendosi in una nave, forse quella da cui era caduto.

Masaoka Kenzō, Storie di nonsenso n.1 – L’isola delle scimmie (1930)

L’avvento del sonoro

A Masaoka si deve anche il primo film animato sonoro.

Nel 1933 viene proiettato il suo Chikara to onna no yononaka (Quello che conta al mondo sono la forza e le donne), che narra le vicende di un impiegato che tradisce la moglie, alta un metro e ottanta e pesante centoventi chili, con la giovane e bella dattilografa. Al termine della storia la moglie e la dattilografa si scontrano per stabilire chi abbia diritto all’uomo.

Il regista venne affiancato da uno staff di pluriesperti, tra cui gli animatori Kimura Hakusan e Seo Mitsuyo e il film fu doppiato dalle voci di alcuni degli attori più noti dell’epoca, tra i quali la famosa attrice Sawa Ranko del teatro Takarazuka Kagekidan.

La prima proiezione avvenne il 15 aprile 1933 all’Asakusa Teikokudan, nello stesso giorno e nello stesso luogo in cui era stata presentata la prima animazione in Giappone.

Nel 1935 ebbe poi modo di lavorare sullo spettacolare Kaguyahime (La principessa Kaguya), film che gli valse l’appellativo diMéliès giapponese” per la varietà di effetti messi in scena e di Disney giapponese” per la ricchezza sperimentale.

L’uso del flashback

L’animatore Kimura Hakusan, che era stato collaboratore di Kitayama Seitarō, dopo il tremendo terremoto del Kanto, esordì nel 1924 con l’anime Akagaki Kenzō tokkuri no wakare (Il lento risveglio di Akagaki Kenzō). La più antica delle sue opere oggi sopravvissute è però Kinken chochiku Shiobara Tasuke (La parsimonia e il risparmio di Tasuke Shiobara) del 1925, rieditato nel 1941 con l’aggiunta del commento del benshi.

Il film, basato su un’opera del repertorio del kabuki, una forma di teatro danzante risalente al 1603, è ambientato nel corso di una sagra in un villaggio, dove la gente danza al suono di tamburi.

Il motivo dei festeggiamenti è spiegato in un lungo flashback che racconta la storia, ambientata pochi anni prima, del graduale successo del commerciante Shiobara Tasuke.

Costretto a rimboccarsi le maniche dopo la morte del padre, il giovane Tasuke vaga disperato per Edo, l’antica Tokyo, cercando inutilmente un lavoro. Decide perciò di farla finita lanciandosi da un ponte, ma viene salvato da un uomo che gli offre un impiego nel proprio negozio. Questa opportunità gli darà modo di riscattarsi e presto, grazie alla sua instancabile solerzia, potrà costruirsi una vita dignitosa.

In Shiobara Tasuke si riconosceva una delle virtù più ammirate dal passato, cioè la forza di volontà che, abbinata alla pulsione creatrice, conduce all’edificazione personale.

La censura

Kimura aveva in seguito avviato la lavorazione di un corto destinato ad un doppio primato: il suo film Suzumibune (La nave fresca) del 1932, bloccato dalle autorità per i suoi contenuti sessuali, se fosse stato presentato sarebbe diventato il primo film erotico della storia dell’animazione giapponese.

Allo stesso tempo, questo veto lo rende il primo film a disegni animati censurato in Giappone.

Negli stessi anni approda alla regia anche Ogino Shigeji, considerato il pioniere dell’animazione sperimentale e astratta giapponese. Si conosce pochissimo di questo autore, anche se sembra abbia girato circa quattrocento film fino agli anni Settanta, ricevendo vari riconoscimenti, tra cui il primo premio all’International Film Contest di Budapest nel 1935 per i tre corti dello stesso anno: Rhytmh (Ritmo), Hyōgen (Espressione) e Kaika (Fioritura).

Le locandine dei corti di Ogino Shigeji:
Rhytmh (Ritmo), Hyōgen (Espressione)
Collage by Elena Paoletta

I rapporti con l’animazione statunitense

Le prime animazioni americane erano state presentate in Giappone già negli anni Venti, ma è dall’inizio degli anni Trenta che la loro distribuzione diventò sistematica.

Si trattava prevalentemente di opere già sonore, di grande presa sul pubblico.

Tra i personaggi più noti, la Betty Boop di Max Fleischer era diventata in poco tempo così popolare da essere citata nell’episodio Ha! Ha! Ha!  in uno dei film più acclamati del 1934, Tonari no Yaechan (La mia vicina Yae) di Shimazu Yasujirō. Alcuni estratti del film, soprattutto quelli presentati in una scena ambientata in un cinema, dimostravano quanto la presenza di Betty Boop fosse stata assorbita nelle forme di intrattenimento giapponesi.

Nel 1938 uscirono quattro titoli ispirati alle gesta dell’aviazione giapponese in Cina, tra cui l’unico di cui si ha notizia è “L’indomita aquila dei cieli”, in cui un aereo giapponese affronta nuvole che prendono la forma di Popeye e Stalin.

L’eroe Momotaro

Il primo grande successo però è legato al protagonista di una famosa favola giapponese, Momotaro.

Già raccontato da Kitayama Seitarō nel 1918, Momotaro è un fanciullo divino, celebre per l’impresa compiuta sull’Isola dei Demoni, dove combatté feroci mostri aiutato da un cane, una scimmia ed un fagiano.

Il personaggio, essendo noto a tutti i bambini, era il più adatto per la propaganda anti occidentale, così ben presto iniziò ad assumere il ruolo di liberatore delle isole del Pacifico contro i demoni bianchi, cioè gli americani.

Se nel 1931 Momotaro aiutava gli abitanti di un’isola antartica contro un’aquila malvagia (Umi no Momotarō), nel 1943 diventa il simbolo eroico delle masse in Momotarō no Umiwashi (Momotaro l’aquila dei mari) e in Momotarō Umi no Shinpei (Momotaro il divino marinaio), entrambi di Mitsuyo Seo, allievo di Kenzo Masaoka.

Mitsuyo Seo si trovò a far parte quindi della macchina della propaganda mediatica finanziata dalla Marina Imperiale, che commissionò uno dei film per celebrare Pearl Harbor.

La storia vede il ragazzo eroe alla guida di una portaerei in una vittoriosa battaglia e la locandina, sotto la scritta “Annientamento dei cartoni animati dei cani americani”, mostra Roosvelt e Popeye naufraghi in mezzo al mare, mentre le loro corazzate affondano.

L’anime ebbe molto successo e fu proiettato anche ai soldati al fronte. L’altro, che inneggiava alla liberazione dell’Asia dagli invasori bianchi e alla creazione di una sfera economica sotto la guida illuminata dell’Imperatore, fu proiettato quando le truppe americane stavano già radendo al suolo le isole giapponesi.

Questi anime rappresentano comunque l’apice di trenta anni di animazione giapponese, uno sforzo che rimarrà isolato per oltre tredici anni.

Mitsuyo Seo, Momotaro il divino marinaio (1945)
Mitsuyo Seo, Momotaro il divino marinaio (1945)

Dopo la guerra

Nel 1943 uscì invece uno dei pochi film non impegnato politicamente, Kumo no tulip (Il ragno e il tulipano), che vedeva una graziosa coccinella insidiata da un ragno.

Le sequenze del diluvio che porta via il ragno, vennero realizzate mostrando le gocce di pioggia in soggettiva dal basso e questo bastò a farlo proclamare dalla rivista giapponese Animage, la quarta miglior produzione di anime di tutti i tempi, anche se il film non incontrò l’approvazione del governo, visto che la vincitrice era la coccinella “bianca”.

La Seconda Guerra Mondiale ebbe esiti tragici su tutti i settori, ma già nel 1945 gli animatori giapponesi erano pronti a riprendere il lavoro.

Circa cento professionisti si riunirono nella Shin Nihon Doga (“Le immagini in movimento del Nuovo Giappone“) che però chiuderà i battenti nel 1951, a causa di gravi problemi economici.

La nuova era degli anime

Alcuni animatori resisterono alle mille difficoltà e fondarono la Nichido Eiga, che riuscì a realizzare opere per la casa di produzione cinematografica Toei, tra cui il lungometraggio Hakujaden, (La leggenda del serpente bianco), un film del 1958 diretto da Kazuhiko Okabe e Taiji Yabushita.

Si tratta del primo lungometraggio anime a colori, basato su una celebre leggenda cinese della dinastia Song (960-1279) che segnò l’inizio vero e proprio della “nuova era dell’animazione nipponica”.

L’anime fu coprodotto dalla Nichido Eiga, prima che la Toei la assorba cambiando il nome in Toei Doga o Toei Animation.  Da questa unione, nacque il primo gigante dell’animazione nipponica, che comincerà a produrre un film animato all’anno per poi allargarsi negli anni Settanta, fino a realizzare migliaia di ore di film.

Tra i titoli più noti, Sasutobi sasuke (Sasuke il piccolo sarutobi) del 1959, Saiyuki (Memorie di un viaggio in occidente) del 1960, realizzato con la collaborazione di Osamu Tezuka, Anju e Zushiomaru del 1961, Notti arabe: le avventure di Simbad del 1962, che si fece apprezzare soprattutto per le splendide onde animate e Il principe monello sconfigge il grande serpente del 1963, che per la prima volta stabilì il ruolo del direttore dell’animazione, ovvero il supervisore dei disegni.

Quest’ultimo film non appassionò però i bambini come sperato, perché ormai le serie televisive avevano avuto la meglio sul cinema.

Hakuja Den, La Leggenda del Serpente Bianco (1958)

L’avvento delle serie televisive

Nei primi anni Settanta le case di produzione, in particolare la Toei Animation nonostante l’ambizione di diventare la “Disney d’Oriente”, iniziarono a ridurre la produzione di film per concentrarsi maggiormente sulla produzione di serie televisive. Per tutti gli anni Ottanta l’attenzione fu rivolta soprattutto a questo tipo di opere.

I film originali diventarono sempre più rari o vennero ridotti soprattutto agli adattamenti cinematografici di quelle serie che avevano avuto maggior successo.

L’animazione dello studio Toei era ancora legata ai canoni estetici disneyani, ma tra i registi e animatori si avvertiva il desiderio di sperimentare qualcosa di nuovo.

I nuovi talenti

Nonostante i dirigenti dell’azienda cercassero di incanalare le aspirazioni creative in questo orizzonte piuttosto angusto, le condizioni lavorative, le ambizioni autoriali e il desiderio di creare un cinema d’animazione originale, travolsero questi vincoli e in pochi anni si affermarono talenti fuori dal comune.

Tra i molti l’animatore Yasuo Ōtsuka, l’allievo regista Isao Takahata e il giovane disegnatore Hayao Miyazaki.

Questi uomini gettarono le basi di un’estetica originale che segnerà profondamente l’animazione giapponese.

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I giovani Hayao Miyazaki e Yasuo Ōtsuka

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