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Daltanious quarant’anni dopo

daltanious copertina

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PERCHÉ RILEGGERE I CLASSICI

Riguardare Daltanious a oltre quarant’anni dalla sua realizzazione è un’esperienza molto stimolante.

La serie è del 1979, quindi arriva relativamente tardi nell’ambito della grande stagione dei super-robot. Ma, proprio per questo, costituisce una sorta di compendio di tutto ciò che c’è stato prima. Con, in più, alcuni elementi originali che la affrancano dal rischio del “già visto”.

È dunque un’opera di grande valore, che occupa un posto speciale nel mio cuore di otaku e che consiglio caldamente a chiunque voglia integrare gli imprescindibili capolavori robotici creati da Nagai e Tomino ma non sappia cosa scegliere nel vastissimo elenco di titoli dello stesso genere.

I motivi per farlo sono molteplici. Prima di tutto per documentarsi su uno dei capitoli più importanti in assoluto della storia dell’animazione giapponese e comprendere le sue ricadute sull’immaginario successivo (peraltro notevoli anche qui in Italia). Poi perché, se si riesce a sorvolare su qualche inevitabile difetto derivante dai suoi anni, Daltanious è un’avventura semplicemente formidabile.

Giovani otaku, credetemi: vale davvero la pena di (ri)guardare Daltanious piuttosto che impelagarsi nell’ennesimo battle shōnen (o isekai o spokon) fatti di scontri tutti uguali senza un minimo di crescita nei personaggi, né di tessitura nella narrazione, né di rilevanza nelle tematiche.

QUALCHE DATO

Daltanious è una produzione di Toei e Sunrise, firmata da Yatsude Saburō. Ciò non tragga in inganno, poiché questo non è altro che uno pseudonimo sotto il quale si cela un lavoro di staff (ed è incredibile, perché la sceneggiatura presenta una omogeneità e una pregnanza rare, come fosse frutto di una sola mente). La regia è invece affidata a Nagahama Tadao e Sasaki Katsutoshi, che sembrerebbero persone in carne e ossa.

La serie consta di 47 episodi. È stata trasmessa innumerevoli volte nei decenni. Attualmente si può trovare su Amazon Prime Video o su Sky On Demand. Tra le varie edizioni home-video, la più recente è quella realizzata dalla Dynit.

TRAMA E TEMI

I FIGLI DELLA BOMBA

Ripercorreremo adesso la trama dell’opera, discutendo in parallelo i non pochi spunti di riflessione.

L’anno è il 1995. La terra è stata invasa e occupata dall’impero alieno degli Akron, provenienti dal pianeta Zaar. Il Giappone, tanto per cambiare, è devastato. I miserabili sopravvissuti si arrangiano a vivere come possono.

daltanious guerra
Invasione aliena o guerra mondiale?

Non serve aggiungere altro, perché non v’è chi non riconosca, in queste sequenze di apertura, il trauma del dopobomba. A confermarlo bastano le esplosioni, che, in questa come in tante altre serie dell’epoca, assumono immancabilmente la forma di un fungo atomico. Le stragi di Hiroshima e Nagasaki, la sconfitta bellica, il conseguente dissesto della nazione giapponese, la crisi di identità e di coscienza del suo intero popolo, sono molto sentiti ancora oggi, figuriamoci all’epoca della realizzazione di Daltanious. Alla fine della serie, ciò si concretizzerà in un messaggio pacifista tutt’altro che generico, grazie a una serie di grandi colpi di scena davvero sconvolgenti.

Tra le rovine si aggira una banda di orfani, composta da quattro ragazzi (l’esuberante Kento, l’ombroso Dani, la materna Sanae, il buffo Tanosuke), tre bambini (il vivace Jiro, lo studioso Manabu, la dolce Mita) e un porcellino. (Utilizzo, per semplice affezione, i nomi dell’ormai storica versione italiana.) Il gruppo, per sopravvivere, ruba del cibo al mercato.

Scoperti e inseguiti, gli orfani si rifugiano in una grotta che poi scoprono essere in realtà l’interno di una astronave dormiente sotto terra da decenni. Inavvertitamente (ooops…) la mettono in moto, rivelandone la presenza agli invasori alieni.

daltanious base segreta

IL DOTTOR EARL

Compare allora l’anziano dottor Earl, scienziato extraterrestre originario del pianeta Helios, precedentemente centro di uno splendido impero poi conquistato dagli Akron, proprio come la Terra.

daltanious dottor earl

Per quanto contrariato dall’intrusione, il dottor Earl capisce che non c’è tempo da perdere e che presto verrà attaccato dal nemico. Perciò, senza troppi complimenti, recluta Kento e Dani (i due più valenti del gruppo) e li infila rispettivamente sul robot Antares e sul velivolo Gumper, in modo che possano difendere la base.

Ci credereste? Kento e Dani mettono in fuga gli Akron. E ti pareva… Orfano più robot uguale vittoria assicurata. Anche se il nemico è un potentissimo impero alieno… Vuoi mettere?

L’AVVENTO DEL LEONE

Non che sia così facile. La battaglia successiva mette in seria difficoltà i nostri eroi. Ma accade qualcosa di incredibile. Quando tutto sembra ormai perduto, il petto di Kento emana una luce mistica che disegna una croce nel cielo e risveglia un gigantesco leone robot, Beralios.

Beralios non solo è una potentissima arma in sé, ma, combinandosi con Antares e Gumper, dà origine al super-robot Daltanious. La vittoria arride nuovamente all’umanità.

daltanious beralios

LA VERITÀ SU KENTO

Resta solo una cosa da spiegare. Che diavolo è accaduto? Che roba era quella luce?

Il dottor Earl, pur sbalordito, si arrende all’evidenza: quel ragazzaccio insolente di Kento appartiene alla famiglia reale di Helios.

Per capire come ciò sia possibile, bisogna tornare al 1945 (la data non è casuale: è quella dello sgancio delle atomiche sul Giappone). Helios sta per cadere sotto i colpi degli Akron. Il dottor Earl si rifugia sulla Terra a bordo della propria astronave, per mettere in salvo il legittimo erede al trono, il principe Harlin. Ma un incidente in fase di atterraggio fa sì che la nave resti danneggiata e che si perdano sia Harlin che Beralios.

Ora Beralios è stato ritrovato. Quanto ad Harlin, che Earl credeva morto, forse è sopravvissuto all’incidente e ha messo al mondo un figlio.

Ma Kento, di tutto ciò, non ne vuole sapere. Non ha alcun ricordo del proprio padre, è cresciuto con madre, sorella e nonno materno, tutti morti in un attacco degli Akron. La sua vera e unica famiglia, ormai, è la banda degli orfani.

daltanious kento pilota

LUOGHI COMUNI E LUCI ARCANE

Già in questa prima parte della storia ravvisiamo un certo numero di luoghi comuni delle serie di super-robot: la Terra invasa dagli alieni, un aiuto proveniente da un altro mondo che ha già subito la stessa sorte, lo scienziato con la sua base, il giovane eroe orfano che viene messo a pilotare il mecha e di cui successivamente si scopre l’origine a sua volta extraterrestre.

Aggiungiamo anche che Daltanious è un robot trasformabile e componibile, sulla falsariga dell’archetipico Getter nagaiano, come del resto tanti altri (tutti galline dalle uova d’oro per il tuo giocattolaio). E, come tanti altri, agisce seguendo una serie di procedure-codificate™ (il coreografico posizionamento del pilota, il grandioso decollo dalla base, il trionfale raggiungimento dell’assetto da battaglia, la guida “a manovelle” e le armi che si attivano gridandone il nome) che sono sì roboanti e ripetitive, e per di più presumono che nel mentre il nemico se ne stia paziente ad aspettare, ma realizzano un rituale semplicemente esaltante, dalla forte presa sull’immaginario del pubblico giovane e… ehm… anche non più tale.

Non uso a caso la parola “rituale” perché i super-robot, sotto l’apparenza fantascientifica, nascondono una natura magica, per non dire demoniaca. Natura che riaffiora ogni qual volta si scopre una leva o un pulsante perfetto per la necessità del momento, ogni qual volta l’imperturbabile volto del mecha tradisce una microespressione, ogni qual volta non si tratta più di ingranaggi ma di sentimenti, di “cuore e acciaio”. Mazinga e compagni, insomma, incarnano l’incomprensibilità, l’imprevedibilità e l’inquietudine cui si riduce il futuro una volta che lo si è liberato dall’illusione delle magnifiche sorti e progressive dell’umanità, garantite al cento per cento, in gettoni d’oro, isole comprese.

Del tutto originale (ma in linea con quanto appena detto) è invece l’apparato simbolico che accompagna Daltanious: il fighissimo leone meccanico che ne adorna il petto, i raggi di luce soprannaturale, il simbolo della croce che si incontra a ogni passo.

Quest’ultimo, diversamente da quanto si potrebbe credere a tutta prima, non ha alcuna relazione col Cristianesimo, se non indiretta: si tratta infatti della croce che figurava addosso ai moschettieri. Del resto, il nome “Daltanious” (udite udite) non è altro che la deformazione nippofona di “D’Artagnan”. Il riferimento è al terzo romanzo della famosa saga dei Tre Moschettieri di Alexandre Dumas Padre, vale a dire Il visconte di Bragelonne: scopriremo il perché nella sezione spoiler.

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Il simbolo della croce che compare un po’ ovunque…

In ogni caso, tutto questo apparato è coerente col disegno complessivo dell’opera, che sarà chiaro solo alla fine e che qui riassumo nel voler connotare quella di Helios come una civiltà solare, nobile, progredita. “Helios”, d’altra parte, era il dio del sole.

UNO SCONTRO DI CULTURE

Per quanto riluttante possa essere ad accettare le responsabilità di un alto lignaggio, Kento è pur sempre un ragazzo di strada: dunque, le comodità offerte dalla tecnologicissima base del dottor Earl fanno gola a lui e a tutta la sua banda. Potete immaginare la quantità di situazioni comiche che si crea allorché il povero scienziato si ritrova mutande stese fra i preziosi macchinari, brodaglie puteolenti che cuociono su bivacchi improvvisati, mocciosi (e maiali!) che corrono ovunque. Per non parlare di quando l’intero villaggio (capeggiato dal buon Toragoro, che nel primo episodio dava la caccia agli orfani ma che poi si è ravveduto) decide di insediarsi nella base.

Alla fine i popolani verranno cortesemente messi alla porta, mentre gli orfani andranno ad abitare in un autobus rottamato, attrezzato con brande e pentole, e parcheggiato accanto alla base. Ma ciò che più importa è che le reazioni inorridite dell’austero dottor Earl, e i suoi continui battibecchi con l’indisciplinato Kento, non sono solo dei siparietti comici: concorrono a una solida costruzione del personaggio, in modo che, quando, durante la seconda parte della serie, l’edificio crollerà, lo farà con un gran botto.

Un antipasto di questo meccanismo ci viene fornito nell’episodio in cui lo scienziato alieno (il quale dorme dieci minuti a notte, detesta il cibo terrestre ed è gravemente asociale) si mette a suonare forsennatamente un tamburo tradizionale giapponese per infondere coraggio nella gente del posto.

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Lo scompiglio portato dagli orfani nella base spaziale
e la loro successiva sistemazione in un autobus abbandonato.

FILLER, ANZI NO

Gli episodi del blocco successivo sono focalizzati su ognuno degli orfani a turno. Apprendiamo del loro passato, di come si sono incontrati, dei loro genitori perduti, dei loro più o meno inconfessabili patimenti. Veniamo a sapere dell’infanzia rissosa di Kento, dei conflitti di Dani con la figura paterna, dell’affetto che lega Jiro al porcellino Jimmy, del desiderio di Mita di andare a scuola come una bambina normale, della preoccupante tendenza del robusto e ingenuo Tanosuke a innamorarsi di qualsiasi ragazza gli sorrida.

daltanious porcellino
Che ci crediate o no, è davvero commovente.

Vale di nuovo il discorso appena fatto a proposito del dottor Earl: tali episodi non sono dei filler messi per allungare il brodo, ma servono a farci affezionare alla found-family di Kento. Senza tale coinvolgimento emotivo, non riusciremmo ad apprezzare quello che è, a mio parere, il succo di tutta la storia.

In Daltanious, insomma, né i siparietti comici né le incursioni nel melodramma sono mai fini a sé stessi, laddove aiutano a rappresentare personaggi, situazioni, tematiche. Ciò persino nei momenti più slapstick che ci regalano Kento e il dottor Earl, perennemente ai ferri corti, e nell’improbabile, eppure sensato ed efficace, “innamoramento” di Beralios per un altro robot.

LA SQUADRA, ANCORA E SEMPRE

E allora prendiamoci il tempo per divagare ancora un po’ e notiamo come la banda degli orfani di Daltanious costituisca un’intelligente variazione su un tema consolidato, vale a dire quello della “squadra”.

Questo trope trova il proprio archetipo nei pennuti Gatchaman e arriva fino al giorno d’oggi, influenzando anche serie che coi mecha non c’entrano niente: per dire, ne risentono persino Lupin III e I Cavalieri dello Zodiaco, per arrivare agli attuali Demon Slayer e Jujutsu Kaisen.

Consiste nel far sì che i protagonisti di una storia siano riconducibili a una serie di figure standard. Si parte da un trio costituito dal leader della squadra, eroico ma anche tormentato e impulsivo (solitamente contrassegnato dal colore rosso), da un secondo piuttosto scontroso in perenne conflitto col precedente (contrassegnato invece dal blu) e da un terzo personaggio grosso e buffo (ma in qualche modo anche “solido”). Il trio viene spesso integrato da una ragazza e da un bambino, arrivando a una boyband una squadra composta dal numero ideale di cinque membri.

daltanious orfani

Voi direte: ma gli orfani di Daltanious non sono cinque, sono sette. Ebbene, ciò dipende dal fatto che il “bambino” della squadra è stato triplicato in modo che ne fossero presenti tutte le epifanie contemporaneamente (di solito se ne sceglie una sola): abbiamo Mita, che rappresenta l’innocenza dell’infanzia, Jiro, che ne è la vivacità, e Manabu, che è il classico enfant-prodige occhialuto e assennato (tanto da diventare ben presto l’assistente del dottor Earl).

Forse direte anche: ma gli orfani di Daltanious non pilotano il robot! Ebbene, in realtà un robot ce l’hanno e come: si tratta di Gamerot, una squinternata tartaruga meccanica (il robot comico, contraltare di quello serio, è un altro cliché del genere). Ma, comunque, resta il fatto che gli orfani non sono figure di contorno, bensì i veri protagonisti della storia e quindi, pur non andando in battaglia, costituiscono una squadra a tutti gli effetti. Ne troviamo conferma nelle due sigle (deliziosa quella finale col balletto da boyband di gruppo) in cui compaiono quasi solo loro.

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Gamerot all’attacco!

CON I CINQUE GENERALI

Già che ci siamo, diamo anche un’occhiata ai cattivi. La loro gerarchia è così strutturata: abbiamo Ormen, l’imperatore degli Akron (che comunica attraverso un simulacro), il comandante Kloppen (che indossa una maschera e di cui discuteremo diffusamente), cinque generali (originariamente sette, ma due vengono fatti fuori nei primi due episodi), vari eserciti e un certo numero di mostri giganti (che in alcuni casi sembrano essere creature organiche e in altri robot dotati di pilota).

La presenza di un titolo imperiale, la multiformità dei generali e l’eterogeneità degli eserciti lasciano intendere che gli Akron non sono un’unica razza aliena bensì una federazione di più civiltà, molte delle quali sono state sottomesse in precedenza da Ormen e combattono al suo fianco perché costrette. Capire questo tornerà utile nel seguito.

I generali, in particolare, hanno l’aspetto di un uomo di pietra, di una donna-pianta, di una medusa monocola (la quale alloggia nella testa, piena d’acqua, di uno scafandro semovente), di un militare ottocentesco insettiforme e di un barbaro con capo e arti di drago. È evidente che i generali rappresentano rispettivamente il mondo minerale, quello vegetale, le creature marine, gli artropodi e gli animali superiori. È altrettanto evidente che essi richiamano i sette generali del Grande Mazinga, ognuno dei quali presiedeva a una diversa categoria di mostri-robot.

daltanious generali malvagi

Il parallelo con l’iconografia di Nagai Gō può essere istruttivo: sia i generali, sia i mostri (ma pure altri particolari di Daltanious) si rifanno al grande pioniere, però assumono caratteristiche decisamente più dimesse. Potrebbe essere mancanza di fantasia ma anche ricerca di una sorta di sobrietà. Lo si deduce dalla sceneggiatura: la visionarietà sfrenata di Nagai si risolveva in trame a volte carenti, mentre in Daltanious tutto è lineare, compatto, coerente, pregnante.

Intendiamoci, ciò non toglie che questi cattivi, così come tutta la serie, presentino le banalità dovute all’epoca, al genere e all’età del target prescelto: le conversazioni altisonanti, le risate diaboliche, il ricorso a piani ridicoli (come spedire cibo avvelenato o… ipnotizzare un porcellino), gli spiegoni e l’immancabile invio del mostro-della-settimana™.

(Ah, non ho mai capito cosa abbia fatto il dottor Earl nei quindici anni tra l’arrivo sulla Terra e l’intrusione degli orfani. Tanto più che non dorme. Boh.)

I GUAI DELLA CELEBRITÀ

Ora che i personaggi si sono conquistati la nostra simpatia, la vicenda può evolversi. Dall’episodio 21, infatti, subentrano varie novità. A partire dal fatto che l’azione tende ad allontanarsi sempre più dalla Terra per proiettarsi invece verso lo spazio

Le ripetute sconfitte inferte da Daltanious agli Akron fanno sì che Kento diventi una celebrità: viene acclamato dai popolani, finisce in televisione, riceve lettere su lettere da parte dei fan.

Inutile dire che ciò non è piacevole come sembra, né esente da rischi: ovviamente gli Akron cercheranno di sfruttare la situazione per ordire l’ennesimo inganno e, altrettanto ovviamente, il governo giapponese cercherà di mettere le mani sul robot. Per fortuna, entrambi i pericoli verranno scongiurati dai nostri eroi.

Ma non finisce qui: la notizia dell’esistenza di un erede al trono di Helios si sparge in tutta la galassia, e così convergono alla base delegati e guerrieri di tutti i pianeti in guerra contro gli Akron.

Inopinatamente, si presenta anche Florinda, frivola e ambiziosa principessa extraterrestre intenzionata a… sposare Kento. La figura di Florinda è delirante e grottesca, e però anch’essa è perfettamente inserita nella trama, cui regala non solo momenti di ilarità, ma pure un contributo prezioso nel delineare le tensioni cui sono sottoposti Kento e i suoi legami affettivi. (Tra parentesi: Florinda è a sua volta dotata di un robot, il quale ha sembianze femminili e spara missili dai seni, dando così luogo a una ulteriore citazione nagaiana.)

Ma andiamo avanti. Se non volete spoiler, saltate da qui direttamente al paragrafo 4, dedicato a grafica e animazione.

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SE VOLETE SALTARE GLI SPOILER, ANDATE AL PARAGRAFO 4!

L’ATTACCO DEI CLONI

Le cose si fanno davvero interessanti allorché viene ritrovato il principe Harlin, il quale conferma ciò che già si sospettava, e cioè che, a seguito dell’accidentato arrivo sulla Terra, si era perduto, era cresciuto come un umano, aveva messo su famiglia e aveva dato alla luce Kento, finendo però in seguito deportato dagli Akron fuori dal sistema solare. Durante la prigionia aveva perso i contatti con la moglie e i figli, ma almeno aveva imparato a conoscere e amare il proprio pianeta di origine, Helios.

A questo punto, l’imperatore Ormen ordina a Kloppen di togliersi la maschera, in modo che tutti vengano a conoscenza della sua vera identità: si scopre quindi che il volto di Kloppen è identico a quello di Harlin. Il primo sarebbe il legittimo erede al trono di Helios, il secondo soltanto un biodroide, cioè un suo clone.

Come se questo colpo di scena non bastasse, tutto viene ben presto rimesso di nuovo in discussione. Grazie alla testimonianza postuma di uno scienziato fatto assassinare da Ormen, viene fuori che è proprio il contrario: Harlin è il principe autentico, e Kloppen la sua copia. Le prove sono inconfutabili, dato che la pelle dei cloni reagisce in determinati modi alla luce del sole (il quale ancora una volta è simbolo di purezza e verità).

Ecco il perché dei riferimenti ai Tre Moschettieri. Nel Visconte di Bragelonne, infatti, compare il famoso uomo con la “maschera di ferro”, realmente esistito ma la cui identità è tuttora sconosciuta, che, nella ricostruzione romanzata di Dumas, è il gemello del re di Francia.

Ne conseguono ulteriori sconvolgimenti: stavolta è Kloppen ad andare in crisi. Superate le fasi della negazione e dell’aggressività, si rivolta contro l’imperatore Ormen, che lo ha allevato nella menzogna, e passa dalla parte dei buoni. A seguito di una battaglia in cui rimangono feriti gravemente sia lui che Harlin, Kloppen si toglie la vita per redimersi lasciando i propri organi in dono al vero principe (con svariati decenni di anticipo su Johnny Freak) e salvandolo.

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La redenzione di Kloppen.

IL DOPPIO PERTURBANTE

Grazie al sacrificio di Kloppen, i nostri eroi tornano su Helios e attaccano direttamente gli Akron, infliggendo loro la sconfitta decisiva. A questo punto si manifesta l’imperatore Ormen in persona, ed è un ennesimo colpo di scena: il suo volto è identico a quello di Nishimura, imperatore di Helios, padre di Harlin e nonno di Kento. Ormen era infatti il clone di Nishimura.

Prima di soccombere, il super-cattivo svela una tremenda verità, che non lo mette certo dalla parte della ragione ma che comunque insinua il dubbio che i buoni non siano poi del tutto buoni.

Sul pianeta Helios esisteva, infatti, questa simpatica tradizione: ogni membro della linea di successione al trono veniva clonato, e il biodroide che ne risultava era allevato in prigionia. Nel caso l’originale subisse ferite gravi, il biodroide veniva mutilato o sventrato affinché fornisse degli “organi di riserva”. In caso di morte dell’originale, invece, il biodroide fungeva da sua “controfigura” per garantire la stabilità dell’impero fino alla designazione di un nuovo sovrano, dopo la quale veniva ucciso senza alcuna recalcitranza esitazione.

All’origine del malefico impero degli Akron, dunque, non si trova l’invasione di una razza aliena, bensì la rivolta dei cloni della famiglia reale di Helios. Avevamo creduto finora che da un lato ci fossero i buoni e dall’altro i cattivi, ma non era così: gli Akron non erano altro che la “coscienza sporca” degli Helios, stirpe ben lungi dall’essere pura e luminosa come sembrava che fosse.

Le ultime parole di Ormen sono: “anche i biodroidi hanno un’anima”. E da sole bastano a ridimensionare la vittoria del “bene”.

Per fortuna, la lezione viene imparata: in un ultimo grandioso rivolgimento, Harlin, salito al trono, decide di trasformare Helios da monarchia a repubblica. Poiché “nessun uomo deve dominare gli altri solo per diritto di nascita” e “il popolo deve scegliere i propri rappresentanti”.

Clone dopo clone, ecco che Zaar non è altro che un doppio simbolico di Helios, e quest’ultimo, a sua volta, un doppio della Terra, nella fattispecie del Giappone. Infatti, come abbiamo già ricordato all’inizio, dopo la Guerra il popolo giapponese si trova a dover affrontare non solo i massacri e la distruzione, ma anche la scoperta che l’imperatore è un semplice essere umano come gli altri, che il glorioso Paese del Sol Levante è tutt’altro che invincibile e che, anzi, ha commesso colpe gravissime, avendo progettato di conquistare il mondo per smania imperialista e preferito sperperare risorse nella militarizzazione piuttosto che per il benessere collettivo.

daltanious cloni
Nella prima riga, un ritratto del defunto Nishimura, imperatore di Helios,
e suo figlio, il principe Harlin.
Nella seconda, Kloppen, clone di Harlin, in vari momenti, con e senza maschera.
Nella terza, Ormen, imperatore degli Akron e clone di Nishimura,
al naturale e dopo l’esposizione al sole senza crema protettiva.

ALIENI SULL’ORLO DI UNA CRISI DI NERVI

In realtà, l’atto di accusa lanciato da Daltanious è ancora più ampio di così. Lo si vede in tanti dettagli.

Per esempio, c’è un episodio in cui il genietto Manabu sentenzia: “studiare è bello, ma il sistema scolastico schiaccia troppo gli studenti”. In lingua originale la frase sarà stata un po’ diversa, ma non troppo… Chiunque conosca un minimo il Giappone, anche solo quello attuale e anche solo attraverso manga & anime, non può non constatare l’importanza di una frase come questa.

Un altro esempio. Dopo la destituzione di Kloppen, l’imperatore degli Akron affida il comando supremo alla donna vegetale. A questo punto il generale testa di sasso uomo di pietra si infuria, non sopportando di essere sottoposto a una “femmina”. Non è singolare tutto ciò, trovandoci in una società come quella degli Akron, composta da gente di tutte le forme, con abbondanza di corna, antenne, zanne, artigli, tentacoli e code? Sarà anche solo una piccola goffaggine della sceneggiatura (o della traduzione), ma la frase ormai è là e dobbiamo farci i conti. E sembra, per quanto irrisoria nel bilancio complessivo della serie, un ennesimo monito. Se persino tra i mostri esiste il problema del sessismo, evidentemente certi pregiudizi sono diffusi ovunque e comunque.

E adesso facciamo un passo indietro e torniamo al momento in cui tutti credono (erroneamente) che Kloppen sia l’originale e Harlin il suo clone.

I generali fedeli a Helios si ritirano sconsolati e passano dalla parte degli Akron: evidentemente non stavano lottando in nome della giustizia, ma solo per generica lealtà a un trono, sparito il quale viene a mancare pure la loro capacità di distinguere il bene dal male.

Anche il dottor Earl va in crisi. Questa meravigliosa commistione del “vecchio saggio” col “vecchio buffo” (antenato, per esempio, dell’Happōsai di Ranma ½ e del Maestro Muten di Dragon Ball; e, allontanandoci da manga & anime, imparentato almeno con lo Yoda di Guerre Stellari e col Merlino di Excalibur) va in crisi profonda, dalla quale esce solo grazie al salvifico intervento di Sanae, che lo conduce a visitare un orfanotrofio mostrandogli per cosa sta combattendo veramente.

Ma i generali una Sanae non ce l’hanno. Né ce l’ha la fatua Florinda, la quale, scoperto che Kento non è più il buon partito che credeva, se ne riparte con la coda tra le gambe in cerca di un altro principino tramite il quale compiere la propria arrampicata sociale.

Quando poi la prospettiva si ribalta e viene fuori che il biodroide è Kloppen, quest’ultimo sprofonda a sua volta nella disperazione, ma ne risale. Lo fa solo con le proprie forze, ed è l’unico a riuscirci. La spinta gliela dà l’esempio involontario di Kento, il quale, trovatosi precedentemente nella stessa situazione, non era rimasto minimamente turbato all’idea di essere non un vero umano ma il figlio di un biodroide. Kento aveva imparato già da tempo a superare i pregiudizi, a badare più alla sostanza che alla forma delle cose. Oso dire che ciò dipenda dalla presenza, nella sua vita, della banda degli orfani, una found-family basata non sui legami di sangue ma su quelli affettivi. Per questo sostengo che gli orfani non siano figure di contorno ma i veri protagonisti di Daltanious: è solo per merito loro che avviene la catarsi finale.

DUE PADRI, ENTRAMBI SBAGLIATI

E forse sarà solo un altro involontario difetto nella scrittura (o forse no?), ma Kento appare decisamente più addolorato per la morte di Kloppen che per quella (due volte creduta ma poi sempre smentita) di Harlin.

daltanious harlin kloppen
A sinistra, Kento ritrova il padre Harlin. A destra la sua disperazione per il sacrificio
di Kloppen, clone del padre e nemico redento.

In fondo, ciò non stupisce. Abbiamo assistito alla sofferta trasformazione di Kloppen da acerrimo nemico a devoto alleato, e infine a “padre spirituale”. Confrontato a lui, Harlin, che di Kento è il vero padre, ci fa una ben meschina figura. È pur vero che Harlin non sbaglia niente e ha la capacità di parlare e agire sempre nel modo giusto. (Per di più, diversamente da Earl, è cresciuto come un giapponese, perciò è in grado di apprezzare una buona zuppa o un bel bagno caldo.) Ma Harlin risulta anche inevitabilmente distaccato, per non dire calcolatore, in queste sue dimostrazioni di magnanimità. E infatti, superata la commozione del ritrovamento reciproco, Kento entra subito in conflitto con lui e lo accusa apertamente di combattere più per il potere che per la giustizia.

Naturalmente Kento ha ragione, e lo si vede nella conversione conclusiva di Harlin alla democrazia. Se Harlin è così sostenuto fino alla fine, è perché il suo cambiamento possa colpirci di più. Ma, a quel punto, nel petto di Harlin batte ormai il cuore di Kloppen, in senso sia letterale che metaforico. Ancora una volta Kento, guidato solo dal suo istinto, ha saputo guardare oltre l’apparenza.

Kloppen è il suo vero padre, così come gli orfani sono il suo vero popolo. Per queste persone, non per la gloria imperiale o l’ambizione personale, Kento ha combattuto. Tanto è vero che, vinta la guerra, Kento torna sulla Terra a fare lo scugnizzo, abbandonando Helios e Harlin; col quale, presumibilmente, in futuro si scambierà solo qualche messaggino interplanetario ai compleanni, giusto per cortesia.

In questo modo Kento sembra riuscire a sanare quella lacerazione insita nella figura dell’orfano alieno, la quale porta, per esempio, l’Actarus di Goldrake ad abbandonare la Terra in favore di Fleed, suo pianeta d’origine, e il Banjo di Daitarn III a sparire letteralmente nel nulla dopo aver sterminato i meganoidi.

LA SCIMMIA NUDA BALLA

Meraviglioso Kento. Una figura di eroe che, pur covando i suoi demoni e pur compiendo un suo percorso (insomma: senza essere tutto d’un pezzo), dall’inizio alla fine non mette mai in discussione le cose in cui crede, per il semplice motivo che sono già valori conquistati e acquisiti, valori lampanti più della luce di Helios.

Anzi, delle sorti di Helios, non gli importa niente, almeno finché non ne incontra degli abitanti e non comincia a vederli come persone vere con cui solidarizzare. E ciò accade non con Harlin ma con gli alleati Cratus e Kalinga, i quali arrivano sulla Terra ben prima del principe. Dei due, il primo si sacrifica in un attacco kamikaze (ancora lo spettro della Seconda Guerra Mondiale) e il secondo instaura col ragazzo una amicizia dovuta essenzialmente al fatto che entrambi sono anticonformisti e vagabondi, per poi perire a sua volta di una morte eroica.

daltanious morte kalinga
La morte eroica di Kalinga.

A Kento premono sempre le persone, si tratti finanche di malati contagiosi o di avversari disertori. Arriva persino a salvare l’opportunista Florinda poiché “anche se è antipatica, non si può lasciarla morire”.

Per questo motivo trovo emblematiche l’impulsività, la spavalderia, l’impertinenza di Kento. Sono cliché dell’eroe, certo, e danno luogo a situazioni di volta in volta ardimentose o cabarettistiche. Ma servono anche, e soprattutto, a rendere il giovane protagonista un essere umano autentico, genuino, spontaneo.

Kento è animalesco: è un golosone, un dormiglione, uno che deve continuamente correre al gabinetto, uno che sbircia le ragazze sotto la doccia. Di più, è scimmiesco: è ipercinetico, è più facile vederlo appeso a un albero che seduto composto, ed è più probabile che vada da un posto a un altro saltando e capriolando piuttosto che camminando normalmente. Il suo corpo viene continuamente e candidamente esibito: si spoglia ogni volta che può, si denuda davanti ai popolani per dimostrare di non essere un biodroide, e addirittura, per rifiuto dei paramenti ufficiali, si presenta in mutande ai solenni generali alleati. Kento è la scimmia nuda, è il buon selvaggio, è il puro folle, e per questo un vero eroe… per non dire “un messia”.

daltanious kento
Alcuni momenti dello scimmiesco Kento.

A questo punto il mosaico è completo: tutte le tessere vanno al loro posto, anche quelle apparentemente di troppo, come lo spazio dato gli orfani, i presunti episodi filler, i siparietti comici. Sono tutti elementi che concorrono alla costruzione di tale senso ultimo della serie: l’umanità incarnata da Kento, il quale sbaraglia gli altri (apertamente-cattivi o fintamente-buoni che siano) più dando il buon esempio che a colpi di alabarde spaziali.

GRAFICA E ANIMAZIONE

(Da questo punto in poi, l’articolo è di nuovo senza spoiler.)

Il punto di forza di Daltanious sta senz’altro nello spessore della sceneggiatura. Visivamente parlando, invece, la serie rimane nella media dell’epoca. Vale a dire, decisamente non esaltante, tanto più per un eventuale giovane pubblico odierno, abituato a ben altri esiti, che potrebbe non riuscire a superare questo indubbio ostacolo e droppare senza pietà.

Il personaggi sono tutti ben caratterizzati, ma niente di più. Funzionano molto bene i sette orfani, naturalmente, così come i nobili (Earl, Harlin, Kloppen, Ormen e Nishimura), i cui visi in partenza ricordano quelli aristocratici e imperscrutabili delle carte da gioco, ma poi riescono a esprimere una gamma molto ricca di sfumature (su tutti Kloppen, il quale, oltretutto, cambia più outfit di una valletta di Sanremo), ma non si può dire lo stesso dei comprimari e, purtroppo, nemmeno dei generali Akron. Si sente davvero la mancanza del genio allucinogeno di Nagai Gō.

Quanto ai mecha, se Beralios è un’invenzione davvero accattivante, purtroppo non risulta questo granché la fisionomia del robot, con la sua mascherina da moschettiere. Per i mostri, vale quello che si è appena detto per i generali: accessori che vengono tolti di mezzo in fretta e altrettanto in fretta si dimenticano. Più uno sbrigativo tributo alla tradizione che un’autentica istanza creativa. In ogni caso, presentano tutto il repertorio di corna appuntite, occhi sgranati, chiome selvagge e arti corazzati che li riconduce allimmaginario del samurai e del demone proveniente dal folclore nipponico, come nella migliore consuetudine super-robotica.

daltanious mostri

Né aiuta la semplicità dei combattimenti, che sono brevi, privi di particolari trovate narrative o registiche e sostanzialmente prevedibili (nel senso delle dinamiche, non per il fatto che alla fine vinca sempre il buono). Fa eccezione il “colpo di grazia”, che Daltanious infligge all’avversario sotto forma di due tagli perpendicolari, i quali vanno a riprodurre l’onnipresente simbolo della croce.

La serie presenta, per giunta, intere scene riciclate più e più volte: oltre, come inevitabile, a quelle relative all’entrata in azione del robot, vengono reiterate molte sequenze in cui il cattivo di turno gesticola, minaccia e sbraita all’indirizzo dei suoi subalterni, nelle quali variano solo le frasi pronunciate (e nemmeno troppo).

SUONO E MUSICHE

Molto meglio vanno le cose sul versante degli effetti sonori (realistici o cartooneschi, a seconda dei casi) e delle musiche (pochi brani ma variegati ed efficaci). La parte del “leone” (no pun intended, o forse sì) la fa la sigla, un’allegra marcetta apprezzabile anche nella versione italiana, poiché, se pur sostituita nei titoli di testa e di coda dalla versione nostrana, ricorre anche in ogni singolo episodio quando Daltanious va all’attacco.

La ripetitività del meccanismo, tuttavia, viene più volte alterata.

Per esempio, nella puntata in cui Beralios si “innamora” tragicamente della sua controparte femminile (una orgogliosa leonessa meccanica), il tipico “aggancio totale” fra i componenti di Daltanious viene accompagnato in sottofondo non già dal tema della sigla, bensì da una musica altamente drammatica; e par quasi di cogliere il dolore nello sguardo della belva-robot, pur sapendo che è lo stesso di sempre poiché in realtà non ha espressione e poiché la scena è riciclata, in una ennesima dimostrazione dell’effetto Kulešov.

E, in un altro episodio, c’è anche la singolarità di una scena in cui gli orfani, per combattere lo sconforto, si mettono a cantare… la sigla della serie, generando un simpatico momento metanarrativo.

Da notare anche che la musichetta accompagna i combattimenti ma si interrompe bruscamente in coincidenza del “colpo di grazia”, in modo che quest’ultimo venga inflitto in un silenzio improvviso e assoluto, per essere poi seguito da una spaventosa esplosione: un meccanismo di cui il cinema attuale si è ampiamente impossessato.

daltanious ballettino sigla finale

LA VERSIONE ITALIANA

LA TRADUZIONE

Per amor di filologia, mi sono appuntato alcune scelte di traduzione, tanto per far rivivere lo spirito dell’epoca.

Ricorderete forse il neologismo “toffolette” con cui l’adattatore italiano dei Peanuts rese gli allora da noi sconosciuti marshmallow e addirittura il Grande Cocomero in cui trasformò la Grande Zucca di Halloween (per una serie di motivi discutibili ma non del tutto irragionevoli). Per rimanere in ambito giapponese, menzioneremo gli okonomiyaki di Kiss me, Licia, che qui da noi diventarono delle autentiche “pizze”.

Ebbene, in Daltanious, invece che di okonomiyaki, si parla di “frittelle”, laddove i daikon sono chiamati “carote” (carote bianche?), e, più accettabilmente, i futon “materassi”, i matsuri “feste” e i kami “Signore”.

Niente di grave, sia chiaro. Era la spregiudicata norma dell’epoca. Negli anni Settanta, inoltre, tutto il lavoro relativo all’edizione italiana dei “cartoni animati” veniva fatto di fretta e al risparmio, anche più che ai giorni nostri. Rammentare queste circostanze ci rende più facile anche perdonare alcune frasi un po’ troppo artefatte e alcune concordanze decisamente errate.

È anzi apprezzabile l’intenzione di mantenere i nomi propri il più possibile simili agli originali, peraltro in molti casi anglicizzanti. Su altre serie furono compiuti, in fase di adattamento, degli autentici scempi. E questo anche in tempi recenti: sembra incredibile che nessuna persona addetta ai lavori abbia mai notato che cambiare “Seiya” in “Pegasus” crea un assurdo diritto di prelazione del giovane cavaliere sulla relativa armatura. Conosco bambini di pochi anni che si sono posti il problema.

LA SIGLA

Qualsivoglia scrupolo filologico, comunque sia, si disintegra al cospetto della sigla italiana, un brano che di primo acchito può risultare ridicolo ma che, a un ascolto ripetuto, entra dritto in testa. Per di più, col merito di cogliere appieno lo spirito contemporaneamente epico e scanzonato dell’intera serie.

Questo caciaronissimo coretto da stadio, inoltre, custodisce delle autentiche perle. Vi scopriamo, tra l’altro, la grintosa strofetta “Extraterrestre, via / da questa terra mia! / Togli le zampe o ce / le lascerai!”, lo spassosissimo “Ti taglia in quattro lui, / ci fa una croce su! / E tu non ci sei più!” (la rilevanza data al simbolo della croce, per quanto dissacrante, testimonia che, per una volta, gli autori hanno guardato la serie prima di buttare giù il pezzo) e l’incredibile “Tutto disintegra, / quando gli girano… / le lame boomerang!” (in cui quel “gli girano” lasciato così in sospeso a fine verso mostra di quali prodigi sia capace un enjambement ben realizzato).

Vi è poi un antico mistero relativo alle parole esatte cantate nel ritornello. Le due tesi più accreditate sono “È Daltanious che compare giù!” e “È Daltanious, bim bum bà alè giù!”, entrambe verosimili e comunque, come si vede, entrambe ai limiti del nonsense.

Il mistero rimarrà insoluto per l’eternità, poiché nemmeno l’autore ha mai saputo (o voluto?) svelarlo. Autore che, poi, è nientemeno dell’inossidabile Franco Migliacci, colui che ha regalato alla storia della canzone italiana successi come Nel blu dipinto di blu, C’era un ragazzo che come me, In ginocchio da te, Una rotonda sul mare, Come te non c’è nessuno, Che sarà, La bambola, Ancora e, quanto a sigle di anime, Il grande Mazinga (“La morte batte i denti!”), Heidi, Carletto principe dei mostri e la “fisarmonica” di Lupin III.

IL DOPPIAGGIO

Di lusso il doppiaggio, che presenta alcune delle voci migliori, e più amate, di quegli anni. Kloppen, in particolare, è interpretato dall’indimenticabile Romano “Goldrake” Malaspina. Jiro è un allora giovanissimo ma già inconfondibile Fabrizio Mazzotta, tuttora molto attivo nell’ambito dell’animazione giapponese.

daltanious orfani

GUIDA AI SUPER-ROBOT

A conclusione della disamina, rimando chi volesse approfondire ulteriormente all’imprescindibile Guida ai Super Robot di Jacopo Nacci, che raccomando con forza, avvertendo però che non si tratta, come potrebbe far credere il titolo, di una banale enciclopedia di robottoni (non che manchino schede tecniche e riassuntive, tutt’altro), bensì di un lungo excursus che ne individua e discute i temi portanti nelle loro numerose variazioni ed evoluzioni.

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