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L’Immortale”: il poema di Manji & Rin

Indice contenuti

Introduzione

“L’Immortale”, anche conosciuto con il nome di “Blade of the Immortal” o “Mugen no Juunin”, è un manga scritto e disegnato da Hiroaki Samura. La storia è ambientata nell’epoca dello Shogunato Tokugawa, ovvero nel secondo anno dell’era Tenmei all’incirca nella seconda metà del 18°secolo.

Cominciata nel 1993 e terminata precisamente nel Natale del 2012, “L’Immortale” arrivò in Italia a partire dal 1997, concludendosi nel 2013. Inizialmente edito by Comic Art, la pubblicazione venne in seguito interrotta verso il volume 9, per poi essere ripresa da Panini Comics e conclusa con la bellezza di 30 volumi.

Ultimamente ristampata in una nuova edizione deluxe edita da Planet Manga. Conterà 15 volumi, rispettivamente al prezzo di 15€ l’uno.

🎎 Potrebbe interessarti anche: Commenti a caldo “Blade of the Immortal”.

📖 Trama: la storia di Manji e Rin

Protagonisti sono Manji: un rōnin ricercato dai soldati dello shogun per aver compiuto la bellezza di 100 omicidi e Rin, figlia dell’attuale mastro del dojo Muten Ichi-Ryu. Durante la notte del compleanno della ragazza, Takayoshi Asano (il padre) tarda a rincasare. Solamente in seguito si scoprirà la verità: l’Itto-Ryu, un dojo rivale capeggiato da Kagehisa Anotsu è in cerca di vendetta.

Dopo aver assassinato il padre di Rin ed aver violentato la madre (per poi portarla con loro), l’Itto-Ryu decide di risparmiare la bambina, all’epoca ancora minorenne. Con il passare degli anni la giovane alimenta un desiderio vendicativo sempre più aspro, sarà proprio tale ambizione che farà apparire in lei un preciso obbiettivo: quello di uccidere tutti i membri della banda assassina che ha causato la caduta del Muten Ichi-Ryu.

Essendo però ancora troppo debole, Rin chiede l’aiuto di Manji, un uomo immortale per colpa del kessenchu, un parassita che infesta il suo corpo e che riesce a riemarginare qualsiasi tipo di ferita. Anche Manji però ha un obbiettivo da raggiungere: uccidere ben 1000 criminali per liberarsi dalla maledizione.

“Strada di sangue, nuvole di odio”

“Chinomichi, nikushimi no kumo” è un pezzo di un brano giapponese antico chiamato “Kuraudo-nai no Nue” (la Nue dentro la nuvola). La storia racconta di un bonzo: Megumi (benedizione) e di un baldo giovane nonchè aspirante samurai. Per un fattore di tempo non mi cimenterò a spiegare la leggenda dettagliatamente, bensì mi focalizzerò sulla parte che a noi interessa.

Essendo ingenuo ed inesperto, il ragazzo (di cui non viene specificato il nome) chiese al monaco cosa significasse la parola “odio” e come questa si relazionasse con la rabbia provata dagli esseri umani; dopo un po’ il monaco rispose vagamente, dicendo di non poter rivelare la risposta. Al tempo stesso però, ordinò al rampollo di compiere numerosi ardui compiti, assicurando che, una volta terminati, questi lo avrebbero ricompensato con ciò che cercava.

Sfortunatamente però, quelle che il giovane dovette affrontare non furono semplici prove, bensì imprese impossibili e, in una di queste, egli conobbe la morte. Inutile dire che la soluzione all’enigma non venne mai rivelata. Oltraggiato il novello samurai decise di maledire il bonzo, recandosi da lui la notte stessa con l’intenzione di ucciderlo.

Una volta morto, Megumi divenne una Nue (una creatura del folklore da sempre simbolo di malattie, rancore ed odio) che, dal canto suo, si mise alla ricerca dell’uccisore con l’obbiettivo di vendicarsi. Essendo però il ragazzo già deceduto, il bonzo non potè che limitarsi a seguirlo, osservando ogni passo che faceva e qualsiasi luogo in cui la sua anima vagava.

Da qui ci ricolleghiamo alla frase ad inizio paragrafo:“strada di sangue, nuvole di odio”, interpretabile anche come “dove c’è sangue c’è odio”. (Nota: nella mitologia giapponese la Nue è raffigurata anche come una nuvola nera).

Come si collega tutto ciò nella storia de “L’Immortale”?

All’interno della storia nessun personaggio matura improvvisamente, “L’Immortale” di Samura ci mostra come una persona possa veramente cambiare in seguito ad un particolare evento. Nonostante la trama sia piena di sangue, omicidi e brutalità varie, le figure trattate cambiano e ciò non avviene sempre in maniera positiva. È proprio la disperazione in sé per sé questo “fattore trasformante”: la vendetta è un qualcosa di terribile, un’arma a doppio taglio, un rischio da correre; è questo oscuro sentimento però che estirpa alla radice i dolori e le sofferenze. Il male si combatte solo con il male.

Manji è immortale, parlare di dolore ed allo stesso tempo di immortalità contraddice il tutto, anche se solo a prima vista. Difatti proprio il “non poter morire” rappresenta la fitta più grande. Il rōnin non è il solo a possedere il verme kessenchu, basti pensare a Eiku Shizuma, un componente dell’Itto-Ryu che nel capitolo 6 del manga conferma di essere vissuto per ben 200 anni.

Quante volte una spada dovrà squarciare le sue carni? Quante volte il suo cuore verrà lacerato? Il protagonista è colpevole dell’uccisione di 100 uomini, attorno a lui si ergono imponenti mura di sangue, le stesse mura di sangue che lo tengono prigioniero in un turbine di morti. Odio e sangue coesistono, sono nati per consumare l’essere umano e farne emergere il suo lato più oscuro.

Un mondo di demoni: Dororo

Un’analogia ben evidente ne “L’Immortale” si presenta con il Dororodi Tezuka. Per chi non sapesse di cosa stiamo parlando: Dororo è un’opera ideata da Osamu Tezuka, il periodo storico è pressappoco lo stesso visto in “Blade of the Immortal” e le tematiche simili, nonostante siano affrontate in maniera del tutto differente le une dalle altre.

Possiamo definire il finale del manga tezukiano un finale “sospeso”; lo spettatore non capisce immediatamente se si parli di un’effettiva “liberazione”. In un mondo di demoni come quello di Dororo è difficile intravedere un barlume di speranza, tutti i personaggi sono legati, o meglio dire intrappolati da “fili di sangue”: anche se non lo si desidera è necessario uccidere. Uccidere o essere uccisi.

Il particolare che mette in sintonia le idee di Samura e Tezuka è sicuramente il rapporto fra i protagonisti. È vero che è Manji la “guardia del corpo” di Rin, ma allo stesso tempo la ragazza rappresenta l’unica “finestra” che affaccia sulla libertà e che impedisce al rōnin di lasciarsi andare alla follia. La storia di Hyakkimaru e Dororo è similare, un racconto ad intermittenza fra odio e pace.

Per non parlare del finale. Per quanto questo sia malinconico in entrambe le storie, lascia intravedere uno spiraglio di speranza: la luce prevale sul buio, illuminando un nuovo cammino, un sentiero per un’esistenza probabilmente meno sanguinosa.

La via dei rōnin, “Sekiro: Shadows Die Twice”

Difficile non ricollegare anche solo l’ambientazione ed il periodo storico presente in “Blade of the Immortal” a “Sekiro: Shadows Die Twice”. Partendo già dal presupposto che Manji assomiglia in maniera alquanto impressionante a Wolf, dopotutto sono rōnin ed entrambi sono al servizio di un’altra persona: nel caso del primo Rin e per il secondo (per chi ha giocato al videogioco) un giovane rampollo discendente di una famiglia di alto prestigio.

Anche il “lupo senza un braccio” sarà costretto a separarsi innumerevoli volte dal suo signore per colpa dei capricci del clan Ashina e del suo leader, Genichiro Ashina; nonostante ciò continuerà a rischiare la vita, proprio come il nostro Manji si sacrificherà ogni volta per la figlia di Asano.

Senza focalizzarmi troppo sulla narrazione di Sekiro aggiungo inoltre un piccolo collegamento con il verme kessenchu, colpevole dell’immortalità del protagonista di “Blade of the Immortal”. Spesso parassiti simili compaiono anche in racconti antichi del folklore e, di conseguenza, in tutto ciò che prende come spunto l’antica cultura nipponica; generalmente identificati come scolopendre, ovvero millepiedi di varie grandezze. L’animale può essere ad esempio notato durante l’esecuzione (mi riferisco al gioco sviluppato da FromSoftware) dell’Headless/Guardian Ape o del Corrupted Monk.

“Tra i fiori, il ciliegio; tra gli uomini, il guerriero”

“Tra i fiori, il ciliegio; tra gli uomini, il guerriero” è un haiku: un breve componimento poetico giapponese nato nel XVII secolo. Probabilmente fra i simbolismi più noti a far parte del Bushido (in breve “la via del guerriero”) vi è il fiore di ciliegio. Escludendo la sua importanza e bellezza nel culto nipponico, il ciliegio viene spesso ricollegato/paragonato alla figura del samurai.

Il perchè è spesso lampante, essendo il fiore stesso il simbolo principale della classe guerriera, nonostante ciò in questo haiku rappresenta un concetto molto più denso, molto più significativo. La citazione viene spesso ritrovata in racconti del folklore, in questa frase però è il ciliegio il soggetto principale e non il guerriero. La pianta è generalmente posta ad indicare due concetti contemporaneamente (seppur nettamente opposti): la bellezza e la caducità della vita.

Durante la fioritura i ciliegi sfoggiano la loro massima virtuosità (per la quale il Giappone è famoso), nonostante ciò il fenomeno rappresenta anche la morte. Raggiungendo il massimo della bellezza il fiore si stacca dal gambo e i suoi petali vengono dispersi dal vento primaverile. Così avviene per il samurai, un semplice fendente nemico può far sopraggiungere la morte, non importa quanto il soggetto sia abile.

Nella filosofia nipponica, l’appassire generico di un qualcosa allude ad un cambiamento: così come il ciliegio muore, il guerriero abbandona il campo di battaglia, oramai morente. È proprio il Bushido a riconoscere il gesto di “dare la vita per una persona” come una delle chiavi principali per condurre una vita virtuosa, ovvero la morte.

Seppuku e Saisei (ATTENZIONE: sono presenti spoiler)

Parliamo di morte e resurrezione se ci addentriamo nella trama de “L’Immortale”, questa volta non a livello fisico, bensì morale. Rin: una ragazza presentata da Samura (ad inizio viaggio) come un’anima fragile, una poppante, il cammino che questa intraprende con Manji parte con un preciso obbiettivo e termina in maniera completamente differente.

Nell’ultimo volume Anotsu definisce il combattimento contro l’immortale “divertente”, il più emozionante a cui avesse mai preso parte. È l’ultimo duello, la sfida che metterà fine ad un labirinto di atrocità che sembrava durare in eterno, il sipario sta per chiudersi.

Nonostante ciò nessuno vince né viene vinto, non spetta a Manji il compito di finire l’ultimo nemico. “Blade of the Immortal” non poteva concludersi in diverso modo: Kagehisa Anotsu non poteva rimanere in vita e Rin doveva ottenere la sua vendetta anche se, a questo punto della narrazione, parlare di “vendetta” non è corretto. È una vera e propria rinascita (Saisei).

Libera finalmente da ogni dubbio e da ogni preoccupazione, la protagonista può guardarsi avanti, verso un futuro radioso, un nuovo viaggio, ricco di esperienze, questa volta però senza nessuno al fianco. Rin non ha più bisogno di Manji e quest’ultimo ha terminato il suo incarico di “guardia del corpo”. Entrambi sono maturati ed entrambi portano sulle loro spalle un bagaglio ricco di esperienze diverse. È il momento di dirsi addio, l’istante più temuto da entrambi, ma questo è veramente un lieto fine?

Manji e Rin: e la storia si ripete (ATTENZIONE: sono presenti spoiler)

“L’Immortale” non ha un vero e proprio finale, il tutto finisce troppo repentinamente, in maniera lucida ed estremamente malinconica. Samura ci proietta 90 anni nel futuro, capiamo dunque immediatamente che tutti i personaggi comparsi fino a pochi passi dalla fine sono oramai deceduti, tutti tranne Manji.

Per non lasciare nulla in sospeso, il mangaka ci mostra una panoramica dove compaiono i personaggi di una certa rilevanza (ovviamente ciò avviene prima del flashforward). Taito Magatsu ha infine abbandonato l’arte della spada, dedicandosi a tempo pieno alla professione di agricoltore, dopotutto sarebbe dovuto essere quello il suo destino; dopo la morte di Anotsu ritiene che la “via del guerriero” non abbia più un senso. Renzo serba ancora rancore verso Rin, rimpiangendo una vendetta che in fin dei conti non si è mai realizzata, il desiderio si era già spento con la morte di Shira. Giichi e Hyakurin sono gli unici superstiti del Mugai-Ryu e quest’ultima è incinta. Ed infine Rin, lei come già detto è maturata e non può fare altro che restare immobile e guardare Manji che abbandona Edo, lasciandosi andare in un pianto liberatorio e soffocante.

La scena finale dell’opera è un nastro che viene riavvolto: il nostro rōnin si imbarca in una nuova avventura, questa volta in compagnia di una ragazzina, ma chi è questa bambina? (ride). La storia non può finire, deve continuare affinchè il protagonista è in vita ma ciò non può accadere perchè Manji è immortale. Samura vuole proprio rendere quest’idea e noi non possiamo fare altro che ammirare l’assassino dei 100 uomini di spalle, mentre volge gli occhi all’orizzonte. Illuminati dall’alba i due cominciano il loro lungo cammino, senza meta né paure e la storia si ripete.

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