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Paprika: analisi

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Paprika (パプリカ Papurika) è la quinta e ultima opera diretta da Satoshi Kon (今 敏 Kon Satoshi, 12 Ottobre 1963 – 24 Agosto 2010) prima della sua tragica scomparsa. Dopo Paranoia Agent, l’unica serie animata della sua filmografia, Kon torna nella sua confort zone, il cinema. Paprika è infatti un lungometraggio, tratto dall’omonimo romanzo di Yasutaka Tsutsui, presentato in anteprima mondiale alla 63ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia del 2006, per poi approdare nelle sale giapponesi il 25 Novembre dello stesso anno.

Il team di realizzazione resta il medesimo della sua opera precedente, Paranoia Agent. Troviamo quindi ancora una volta lo studio Madhouse (TrigunBlack LagoonDeath Note, e moltissimi altri) per le animazioni, sigillando la collaborazione con il regista dell’Hokkaido fino al suo ultimo lavoro. Kon riconferma inoltre Seishi Minakami (ShiguruiSkull Man) ad assisterlo alla stesura della sceneggiatura del film.

Sinossi

Atsuko Chiba è una psicoterapeuta che cura i traumi dei suoi pazienti interagendo direttamente col loro mondo onirico. La terapia è in grado penetrare i sogni e di esplorare l’inconscio mediante il DC-Mini, un dispositivo che apre incredibili prospettive nel trattamento dei disturbi psichici. Prima ancora di essere brevettato, il congegno rivoluzionario viene trafugato e il Dottor Shima, direttore e mentore di Atsuko, imprigionato nel sogno dissennato e delirante di un folle. Il misterioso nemico è deciso a interferire coi sogni degli uomini, a manipolarli e a governare sul mondo sognato e su quello reale. L’uso scorretto del DC-Mini potrebbe infatti annichilire la personalità e la volontà del sognatore. Konakawa, un detective che odia il cinema ma sogna per generi cinematografici, decide di indagare. Nelle indagini al confine con l’inconscio lo aiuteranno Paprika, alter ego onirico della dottoressa Atsuko, e il dottor Tokita, pingue inventore del prototipo

-estratto da mymovies.it

Commento Critico

Dalle informazioni contenute nella breve introduzione all’articolo sembra come se Kon per la realizzazione di Paprika si fosse “adagiato” nella sua arte, crogiolandosi nel successo internazionale che aveva oramai raggiunto. Nelle sue precedenti opere Kon aveva abituato il suo pubblico a forti cambiamenti nel suo modo di creare arte. Come in Tokyo Godfathers, dove sostituì Sadayuki Murai, una figura fondamentale nella prima parte della carriera del regista dell’Hokkaido, per non parlare della scelta dei tre protagonisti. O in Paranoia Agent, dove invece abbandonò il cinema per approdare sul piccolo schermo; oppure in Millennium Actress dove spiazzò tutti per il netto cambio di genere rispetto al suo film di debutto, e nel quale azzardò anche il suo primo soggetto originale.

In Paprika accade l’esatto contrario. Kon conferma l’intero staff con cui ha lavorato nella sua opera precedente, tornando inoltre nella sua comfort zone: un lungometraggio, thriller psicologico, e per giunta l’adattamento di un romanzo, quindi un soggetto non originale. In una parola, Perfect Blue. C’è stata davvero un’involuzione nella carriera artistica di Kon?

➡️ Leggi anche: Perfect Blue

Un’irrecusabile richiesta

Verso la fine del 2003, Satoshi Kon partecipa ad un evento sponsorizzato da un magazine del settore dell’animazione. Tra i numerosi invitati c’è anche Yasutaka Tsutsui, l’autore del romanzo di Paprika. Quest’ultimo, deluso dal non essere riuscito a trovare nessuno disposto a trasporre la sua opera sul grande schermo (parliamo di live action), coglie al volo l’occasione di fare la medesima proposta anche a Kon, al tempo già preceduto dalla sua fama.

Quello che non sapeva Tsutsui è che Kon era un grande estimatore di Paprika, e che già in passato gli era più volte balenata l’idea di farne una trasposizione animata, ma sempre naufragata a causa della natura troppo “surreale” del soggetto originale. Tuttavia, dopo aver ricevuto la richiesta direttamente dall’autore del romanzo, Kon non poteva più tirarsi indietro. Quasi come fosse un segno del destino, la sua personale Kiyoko.

Fare un adattamento del romanzo di Paprika non era cosa semplice, anzi, era una vera e propria sfida. Sfida che Kon accettò di buon grado, e che affrontò con molta prudenza. Difatti, prima di dedicarsi ad essa si concentrò nel completare quello che può essere considerato il suo opus magnum, Paranoia Agent. Il regista infatti si buttò a capofitto nella realizzazione di Paprika solamente un anno dopo la proposta avanzatagli da Tsutsui. Probabilmente cercando di trovare un modo per poter rappresentare sul grande schermo quell’opera così complessa.

La realizzazione di Paprika non ha segnato assolutamente un’involuzione nella carriera del regista. Riuscire dove altre persone nemmeno avevano osato iniziare, realizzare un film su di un’opera che lui stesso reputava estremamente difficile, quasi impossibile, da trasporre. Kon non aveva bisogno di altre motivazioni per rinvigorire la sua arte, per questo motivo non reputò necessario fare altri cambiamenti. L’irrinunciabile offerta di Tsutsui era uno stimolo più che sufficiente.

➡️ Leggi anche: Paranoia agent

Il cinema automatico…?

La problematicità di trasporre il romanzo di Paprika risiedeva nel come riuscire a rendere in maniera corretta e soddisfacente i sogni dei vari personaggi descritti nel libro. L’autore del romanzo, Yasutaka Tsutsui, abbraccia in pieno la teoria freudiana, ovvero i sogni come espressione dell’inconscio.

Per riprodurre questo concetto nel suo romanzo, Tsutsui nella descrizione dei sogni utilizza una tecnica molto simile alla scrittura automatica tanto cara a André Breton e al suo movimento surrealista. Tuttavia, un conto è scrivere un romanzo, dove sicuramente le parole hanno un loro valore descrittivo, ma l’immaginazione del lettore è nettamente predominante. Nell’arte cinematografica, l’immaginazione dello spettatore non esiste affatto, ma è soltanto quella del regista che conta. Risiede proprio qui il timore delle varie case di produzione che hanno rifiutato di trasporre Paprika; e ovviamente anche quello di Kon.

Nonostante ciò, secondo il mio modesto parere, penso che Kon sia riuscito perfettamente nell’impresa. Attraverso un’amalgama omogenea di spezzoni di vita reale, sogno inconscio e scene completamente senza filo logico, il regista riesce a scaturire nello spettatore un senso di estremo disorientamento, senza però intaccare mai lo svolgimento della narrazione.

Probabilmente le mie parole non rendono appieno l’impresa nella quale è riuscito Kon, in quanto anche nelle sue opere precedenti ha utilizzato il medesimo tipo di regia, la realtà che si confonde con l’irrealtà, anzi può essere considerata la sua caratteristica distintiva. Tuttavia in Paprika raggiunge la massima espressione del suo stile registico, con scene in grado di rievocare i dipinti di Ernst, e arrivando ad accarezzare maestri del cinema surreale come Luis Bunuel grazie ad una narrazione soltanto apparentemente “automatica”, ma che in realtà è stata studiata “coscientemente” da Kon in ogni singolo frame della pellicola.

La sintesi del pensiero “koniano”

Sin dalla prima volta che vidi Paprika, quando mi capita di ripensare a questo film rimango positivamente sbalordito dalla capacità di Kon nell’aver trasformato un soggetto non originale in quello che può essere definito l’opera che meglio racchiude il pensiero dell’autore.

Atsuko Chiba, la protagonista del lungometraggio, più che essere uscita fuori dal romanzo di Tsutsui, sembra essere la sintesi perfetta della filmografia di Kon.

  • Il conflitto interiore che Atsuko ha con la sua controparte “onirica” Paprika, ricorda molto quello che affligge Mima, la protagonista di Perfect Blue. L’immagine che ho scelto per questo paragrafo è una palese autocitazione che il regista fa alla sua opera prima.
  • La determinazione con la quale Atsuko affronta gli eventi narrati nel film, la rendono molto simile a Chiyoko, la protagonista di Millennium Actress. Questa forza d’animo porta la bella scienziata ad avere molti ammiratori, che la venerano come fosse una entità irraggiungibile, esattamente come Chiyoko lo era per Genya.
  • La bontà d’animo e l’altruismo, i medesimi sentimenti che guidano i tre protagonisti di Tokyo Godfathers, portano Atsuko a salvare l’umanità dalla distruzione.
  • Il superamento delle convenzioni della società giapponese. Come Tsukiko Sagi e Keiichi Ikari, protagonisti di Paranoia Agent, i quali dopo aver compreso ciò che c’è di importante nelle loro vite, riescono a sconfiggere le assurde pressioni della società giapponese, rappresentate nell’anime come un enorme blob nero. La somiglianza di quest’ultimo alla massa nera che Atsuko “aspira” nel finale del film è senza dubbio innegabile.

Proprio l’ultimo punto appena descritto è la chiave per interpretare il finale di Paprika, il quale avrà sicuramente lasciato perplesso più di qualche spettatore. Difatti, riflettendo un poco sul personaggio di Atsuko, è facile comprendere come la giovane dottoressa inizialmente sia la rappresentazione perfetta del cittadino medio giapponese. Una donna in carriera, che ha come centro della sua vita il lavoro, una professione peraltro “utile” alla comunità, in breve, una donna che segue alla lettera il galateo della buon cittadino. Tuttavia questo comportamento la costringe a tenere sopiti tutti i suoi veri sentimenti, uno su tutti l’amore che prova per Tokita. Questo fa capire come la maschera che indossa la protagonista non è quella di Paprika, ma è quella della dottoressa Atsuko Chiba.

Ma perché si innamora di Tokita? Da cosa è attratta? Di certo non dal suo aspetto fisico, tanto meno per il suo intelletto. Atsuko è attratta dall’ingenuità dell’animo di Tokita, talmente cristallino e incontaminato da sembrare quello di un bambino. Nel film, infatti, viene spesso descritto come un genio “infantile”.

Quando Atsuko riesce finalmente a togliersi la maschera da impeccabile donna in carriera, e quindi ad aprire il suo cuore ai sentimenti che prova, viene letteralmente ingurgitata da Tokita. Scena emblematica che rappresenta perfettamente come Atsuko sia entrata a far parte del mondo del suo amato, dove il manuale del buon cittadino giapponese non viene neppure considerato. Per questo motivo assistiamo letteralmente alla rinascita di Atsuko, una bambina che cresce divorando la bruttura della società moderna, rappresentata dalla massa nera che impesta la città, e che ha come suo avatar l’antagonista del film, il direttore Seijiro Inui.

Quest’ultimo, può essere davvero considerato malvagio? La risposta concisa è sì, tuttavia il concetto è ben più ampio. Inui vuole distruggere l’umanità perché reputa che il progresso scientifico sia arrivato a un punto di non ritorno. Conquistare e controllare anche l’ultimo baluardo dell’escapismo umano, secondo lui è un’eresia. Togliere all’essere umano il potere di sognare è un qualcosa di inconcepibile e inaccettabile.

Descritto in questo modo, il piano di annichilimento della razza umana non sembra poi così sbagliato. La domanda che il regista pone al suo pubblico è quindi: è giusto che la scienza distrugga quel legame, mistico e personale, che ognuno di noi ha quando sogna? Tuttavia, Kon ci mostra come la risposta a questo quesito sia insita nella domanda stessa. Perché l’essere umano ha la necessità di sognare? Semplice, per distaccarsi dal mondo reale. La società porta l’uomo a voler fuggire dalla realtà. Il quesito che si pone Kon è perché si è arrivati a questo paradosso: vivere difendendo ciò che ci fa fuggire dalla vita.

Sì, è un poco complicato da spiegare. Ma il regista lo ha già fatto nelle sue opere precedenti, difatti il medesimo messaggio è presente sia in Tokyo Godfathers, e in particolar modo in Paranoia Agent. Di conseguenza anche la risposta al succitato dilemma è la stessa data nelle sue previe opere. Ricominciare con l’innocenza dei bambini, crescere distruggendo/assorbendo le contraddizioni della società moderna. Tornare puri, senza la necessità di indossare maschere “sociali”, scrollandosi di dosso tutti gli obblighi che la società moderna impone. Precisamente come fa Atsuko Chiba nel finale di Paprika.

➡️ Leggi anche: Tokyo Godfathers

I sogni son … rimpianti

Come era già accaduto in Perfect Blue, la trasposizione di Paprika non segue fedelmente il romanzo scritto da Tsutsui. Deve essere infatti considerata come una rivisitazione dell’opera originale secondo il punto di vista di Kon. Scelta ampiamente condivisa anche dall’autore dell’opera originale, convenendo entrambi sul fatto che sarebbe stato noioso riproporre per filo e per segno la medesima storia, e sopratutto non avrebbe avuto alcun senso realizzare un film che non avrebbe mai potuto superare il romanzo.

Nonostante la trama sia pressoché la stessa, sono presenti elementi inediti aggiunti dal regista per esprimere concetti propri della sua esperienza, rendendo in questo modo personale anche un soggetto non creato da lui.

Tra i più importanti c’è di sicuro il detective Konakawa, personaggio creato appositamente per il film, che mai compare nel romanzo. Un’aggiunta alquanto rilevante, dato che può essere considerato il coprotagonista della storia. Kon affida a questo personaggio un ruolo ed un significato molto personale. Dopo il detective Ikari in Paranoia Agent, troviamo un altro poliziotto a catturare la scena. Attraverso questo personaggio Kon esprime l’importanza di non abbandonare mai i propri sogni. Konakawa infatti rinuncia a perseguire la carriera di regista, o comunque nell’industria del cinema che tanto ama, perché lo reputa un sogno irrealizzabile. Per questo motivo abbandona tutto e si cerca un “lavoro vero”, il poliziotto. Questo gli provoca un grave senso di rimorso, che lo tormenterà negli anni a seguire, oltre a sviluppare inconsciamente un insensato odio per il cinema. Rappresentato splendidamente da quell’incubo nel quale scopre di esser stato proprio lui ad avere tradito e ucciso la parte del suo io che sognava di diventare un regista.

Il personaggio del detective Konakawa rappresenta probabilmente lo scenario che Kon aveva immaginato nel caso non avesse realizzato il suo sogno di lavorare nel mondo dell’animazione. Sarebbe diventato con ogni probabilità un poliziotto, perseguitato dal rimorso di aver tradito il suo sogno, rimpiangendo ogni giorno tutte le storie che non avrebbe potuto trasformare in sceneggiature di film. Scena resa splendidamente nelle scene finali di Paprika, dove Konakawa, nei pressi di una sala cinematografica all’interno del suo sogno, cammina ammirando le vetrine sulle quali sono affisse le locandine dei film di Millennium Actress e Tokyo Godfathers.

Tenendo bene in mente la satira sociale presente nei precedenti lavori di Kon, il regista ha voluto incoraggiare il suo pubblico, composto per la maggior parte da giovani, a non tradire i propri sogni, nonostante la società giapponese spinga loro a trovarsi un lavoro “utile” alla comunità.

➡️ Leggi anche: Millennium Actress

World-Wide-Web : la parata dei desideri

Scommetto che non ci hai mai pensato, ma internet e i sogni sono simili. Sono entrambi luoghi in cui il conscio represso si sfoga.

Paprika

Queste sono le parole che Paprika rivolge a Konakawa durante il loro appuntamento che avviene in un bar virtuale. Vediamo infatti il detective collegarsi, tramite PC, al sito che Paprika gli aveva segnato sul bigliettino da visita ad inizio film. Quindi più che di un bar virtuale, possiamo parlare di un sito, di una chat, di un forum, etc.

Le succitate parole di Paprika rafforzano in maniera ferma questo concetto: il sogno come internet. Un’altra forma di escapismo che si aggiunge quindi a tutte le altre precedentemente trattate nelle previe opere del regista. Proprio in un’intervista rilasciata dopo la messa in onda di Paranoia Agent (già riportata nell’articolo dedicato a questa serie), Kon affermò :

per poter sopravvivere ognuno di noi ha bisogno di qualcosa che sia lontano dalla realtà … come la fantasia, i sogni, e forse anche la paranoia

Satoshi Kon

I sogni come la fantasia, i sogni come la paranoia. Una via di fuga dalla realtà, fondamentale per rimanere sani mentalmente. Il regista in quel periodo stava già lavorando alla sceneggiatura di Paprika, anticipò quindi, più o meno volontariamente, il tema principale di quella che sarebbe diventata la sua ultima opera.

Qual è però il senso di paragonare i sogni a internet? La risposta sta nella protagonista, Atsuko Chiba. Come ho già descritto in uno dei precedenti paragrafi, Atsuko indossa la maschera della perfetta cittadina giapponese, nascondendo e tenendo a bada la sua vera personalità, Paprika per l’appunto, socialmente troppo intraprendente. Quest’ultima si materializza quando la protagonista utilizza il DC Mini, o come quando incontra Konakawa nel bar virtuale, ovverosia su internet.

Il World Wide Web è quindi il luogo dove una persona può esprimere la sua vera natura, dove si può sognare (o far finta) di essere chiunque si voglia senza dover badare ad alcuna legge del mondo reale. Verrebbe da dire un mondo da “sogno”. Ma è realmente così?

Non secondo l’opinione di Kon. Il regista, parafrasando il pensiero di C. G. Jung, uno dei padri fondatori della psicoanalisi, sostiene come le persone tendano sul web a mostrare il loro (Selbst) in un modo molto simile a quello teorizzato dal succitato psicanalista sullo studio dei sogni. Internet come i sogni, dove l’ Io (Ego), la parte cosciente di un individuo, viene meno. Ma una caratteristica del web è quella di essere connessi ad altre persone, praticamente ad ogni essere umano. Citando nuovamente Jung, una sorta di inconscio collettivo. Sorge proprio qui il problema secondo Kon. Il regista pensa che la rete internet, essendo un mezzo attraverso il quale è possibile parlare direttamente al cuore, all’essenza di una persona, può risultare estremamente pericoloso.

Il web infatti, non solo permette di avere una platea molto più ampia, ma attraverso di esso risulta anche più semplice influenzare le persone, che non interagendo “realmente” con loro. Negli ultimi anni, tra post virali sui social network, fake news, etc… dovremmo sapere quanto sia facile indirizzare il pensiero della massa in un’unica direzione, esattamente come la parata che vediamo in Paprika.

In poche parole, Kon reputa internet un mezzo spaventoso, capace di dar vita ad innumerevoli Shonen Bat, e per chi non avesse capito la citazione all’antagonista di Paranoia Agent, ad innumerevoli casi di follia collettiva. E sappiamo tutti quali possono essere le conseguenze, la paura è stata probabilmente la causa delle azioni più atroci che abbiano mai macchiato la storia del genere umano.

In conclusione

Paprika è sicuramente l’opera visivamente più sperimentale di Satoshi Kon, dove senza dubbio alcuno raggiunge l’apice del suo stile registico. Non c’è null’altro da aggiungere a riguardo.

D’altro canto, per il lato contenutistico del film il regista ha scelto di utilizzare un’arma a doppio taglio. Mi spiego meglio. Paprika può essere benissimo considerata l’opera omnia dell’espressione koniana, soltanto però da chi conosce dettagliatamente la sua filmografia. Per chi invece si imbatte in Paprika senza aver visto e/o capito le opere precedenti del regista, oltre a restare affascinato dal lato estetico del film, può solo che restare confuso e disorientato da quanto appare sullo schermo.

Voglio concludere con quella che è diventata, involontariamente, l’ultima battuta con la quale Satoshi Kon si accomiata dal suo pubblico :

[La tua vita è] Una realtà creata dalla tua fantasia. Non scordarlo mai.

Toshimi Konakawa

Comments

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  1. Questi articoli sulle opere di Kon sono semplicemente fantastici. Curati, ben scritti e argomentati, fanno sia da spiegazione che da punto di partenza di ulteriore riflessione dando alcune chiavi di lettura sulla poetica di uno dei migliori registi degli ultimi 30 anni.

  2. Volevo farti i complimenti, avevo scritto un papiro dove ti ringraziavo per avermi dato prospettive che non avrei mai raggiunto solo grazie alla visione, però la pagina ha refreshato cancellando il commento prima che potessi inviarlo.
    Trovo comunque ammirevole è fantastica la tua accuratezza nello scrivere questo articolo, trasuda passione, sarebbe da stampare e incorniciare, hai sicuramente reso giustizia alla bellezza del film, ed al lavoro del regista che da come ho letto, purtroppo è scomparso prematuramente.
    Chiudo facendoti ancora i complimenti specialmente per la parte dove metti in dubbio la correttezza di difendere il bisogno di sognare, considerandolo una scappatoia dalla vita di tutti i giorni e quindi ponendo come paradosso “vivere in difesa dell’unico momento fuori dalla vita”

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