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The Box Man: la crisi psichedelica di Imiri Sakabashira

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Siamo come pigmei persi in un labirinto di nebbia. Non siamo in guerra, stiamo soltanto avendo un esaurimento nervoso, di nuovo”. Queste sono le parole di Hunter Stockton Thompson, uno dei più innovativi ed ecclettici giornalisti di sempre. Il suo personaggio è facilmente ravvisabile nella figura di Imiri Sakabashira, mangaka classe ’64 e grandissimo esponente del gekiga contemporaneo. The Box Man è uno dei suoi lavori più apprezzati e rispecchia in maniera cristallina i reportage tanto travagliati quanto spericolati dell’ideatore del gonzo journalism.

Sia nel manga estremamente surrealista di Sakabashira sia nei lisergici articoli di Thompson la trama si perde nei meandri oscuri di una mente offuscata da visioni psichedeliche e grottesche. Nonostante ciò, le narrazioni impercettibili, convulse da emicranie causate da droghe di ogni genere o dalla semplice immaginazione, colpiscono il lettore quasi magicamente, vomitandogli addosso i problemi di una società beffarda e vergognosa.

Paura e delirio a Las Vegas
Iconico scatto tratto da Paura e delirio a Las Vegas di Terry Gilliam, interpretato da Johnny Depp e Benicio del Toro e realizzato, ispirandosi al romanzo Paura e disgusto a Las Vegas di Hunter Stockton Thompson, nel 1998.

Imiri Sakabashira, così come Thompson, non ha mai rispettato le convenzioni ed è per questo che il suo manga alternativo si colloca in un crocevia ambiguo. Fin dalle sue primissime opere, pubblicate su Garo, l’autore mischia il gekiga puro del Nejishiki di Yoshiharu Tsuge, con i kaiju e la folkloristica fantascienza di Eiji Tsuburaya, il tutto servito con un pizzico dell’heta-uma di Teruhiko Yumura. Tre nomi fondamentali, questi, per Sakabashira, il quale non smetterà di citarli nelle sue opere. Ma di cosa parla The Box Man?

La poetica del hijitsuzai no genjitsu

Per analizzare nel dettaglio il personaggio e l’arte di Imiri Sakabashira è necessario passare attraverso un altro artista: Kōbō Abe. Scrittore, drammaturgo, fotografo, regista: Abe è sicuramente uno degli autori più influenti e rappresentativi del Giappone dello scorso secolo. Trova due solide comunanze con il nostro artista: The Box Man e il surrealismo.

Le immagini ingannatrici di Kōbō Abe

Nel 1973, infatti, lo scrittore pubblicherà uno dei suoi più importanti ed apprezzati scritti: L’uomo scatola (箱男, Hako otoko). Ciò che contraddistingue l’opera è l’assiduo sperimentalismo, che trova la sua efflorescenza in un surrealismo disilluso. La trama del libro non ha nulla a che fare con il manga in analisi e questo non vuole esserne una rivisitazione. Ne L’uomo scatola assistiamo all’assurda odissea di un individuo che decide di infilarsi in una scatola e scorgere il mondo dallo spioncino che vi ha praticato. Come se fosse un Lo squalificato moderno, Kōbō Abe mette in scena la spersonalizzazione di un individuo capace di osservare l’intimità dell’uomo attraverso la sua bizzarra comfort zone. Nel tripudio del surrealismo, lo scrittore focalizza l’attenzione del lettore sulle istantanee di una realtà sempre più grigia e pesante.

Questa mescolanza di surreale e reale è cristallizzata nella formula “hijitsuzai no genjitsu“, che tradotta significa “la realtà dell’irreale”. Non solo, quindi, è in comune il titolo dell’opera, ma anche la poetica dietro i due lavori. Inoltre, nella raccolta dei suoi saggi rubricata con il nome di Sabaku no shisō, Abe definisce una filosofia sorprendentemente analoga a quella di Sakabashira:

La mia abitudine di potare in scena cose irreali è dettata esclusivamente dalla volontà di guardare sempre in faccia la realtà. È così che ho cominciato a nutrire interesse per la realtà. I fantasmi sono materialmente inconsistenti, sono invisibili, ma se si guarda al di là di essi, attraverso il guscio della realtà, è possibile spiare ogni minimo dettaglio. Quel guscio è la nostra quotidianità, il muro degli stereotipi. È un muro costituito da un mosaico fatto di irrealtà e di cose irreali, e proprio per questo i fantasmi sono la fessura ideale attraverso cui guardare il mondo.

Kōbō Abe – Sabaku no shisō
The Box Man Kobo Abe

La fantasmagoria della crisi

Kōbō Abe è riconosciuto in patria come uno degli artisti che più hanno ispirato le nuove generazioni di scrittori e non solo. Ciononostante, non è possibile sapere se Imiri Sakabashira avesse a mente la poetica di Abe mentre illustrava le pagine di The Box Man. Detto ciò, tuttavia, la filosofia dietro ai due progetti sembra pressoché inalterata. Il mangaka farcisce le sue tavole con creature e mostri raccapriccianti ed onirici e dissemina citazioni alla cultura popolare di quegli anni. Tutti questi elementi finiranno per prendere il sopravvenuto sulla trama, quasi a soffocare la narrazione.

La raffigurazione della società proiettata nelle pagine di Sakabashira appare contorta e sul baratro della follia. L’artista, riempiendo le sue pagine di fabbriche, yokai e robot, critica aspreamente la fine catastrofica di un’era, quella del kōdo keizai seichō (miracolo economico giapponese). I paesaggi raffigurati mostrano miriadi di kaiju, kaijin, yokai, creature mostruose e spesso robotiche avvicendarsi in quelle che sono rarefatte fotografie degli anni ’70 in Giappone. Decenni, quelli del Settanta e dell’Ottanta, solcati da una profondissima crisi, che ha fatto sì che venissero realizzate opere sull’alienazione e l'”oppressione del metallo“. Sakabashira, così come Kōbō Abe, dipinge mondi unendo gli elementi reali con i fantasmi fantascientifici che tanto adora.

Il Giappone è stato traumatizzato da catastrofi nel corso della sua storia: guerre, nucleare, terremoti. La società consumistica vuole farci dimenticare, ma molti di questi artisti esprimono attraverso il loro lavoro questo profondo trauma.

Paul Gravett – Heta-uma & Mangaro
Imiri Sakabashira

Trittico iconografico delle ispirazioni artistiche

Peculiarità del mangaka, la quale trova comunanza in molti altri artisti di manga alternativo, è la grande scarsità di sue notizie. Personaggio disgustosamente eccentrico, Sakabashira da un paio di anni è scomparso dal panorama del manga, dedicandosi alla musica e alle miniature. Sul suo Twitter condivide spesso le statuine che realizza, ed è facile notare il loro fascino vintage. Mentre con la sua garage band, i Roden Ginza, tiene spesso piccoli concerti. Per il resto è totalmente sparito dalla scena, lasciando traccia con le sue opere incredibilmente evocative ma al limite del non senso.

Come fare ad analizzare un’artista attualmente dimenticato ma da sempre stato nell’ombra? Le interviste rilasciate su AX e Garo sono purtroppo irreperibili e, quindi, non ci resta che una sola soluzione. Affidarci ad altri artisti. In questi trafiletti, infatti, analizzeremo l’influenza che tre importantissimi mangaka hanno avuto sul giovane Imiri e cercheremo di sviscerare la filosofia del fumettista controcorrente. Ovviamente questo triangolo non è esaustivo, dal momento che all’interno delle opere dell’artista è possibile scorgere l’affluenza di altri stili. Due tra i maggiori sono sicuramenti quelli dell’ero-guro di Suehiro Maruo e quelli della pseudostoria folkloristica di Daijiro Morohoshi.

Il watakushi manga di Yoshiharu Tsuge

Sakabashira ha sempre reso nota la sua ammirazione per Yoshiharu Tsuge, autore in grado di folgorarlo da giovane grazie a Nejishiki. Questo è un titolo fondamentale per la storia del manga. Yoshiharu Tsuge non ha contribuito soltanto a far avvicinare Sakabashira al manga, ma grazie alla sua arte ha rivoluzionato il panorama del fumetto giapponese. Opere come Nejishiki e L’uomo senza talento compendiano perfettamente quella che è stata la visione del gekiga per l’autore: il watakushi manga (il manga dell'”io”). Attraverso le sue storie il mangaka si relaziona con il suo “io” più recondito e parla al lettore dell’esistenza amara che ha sempre vissuto.

La narrazione crudamente realista del watakushi manga sembra collidere con il succitato surrealismo distintivo del tratto di Sakabashira. Tuttavia, l’autore di The Box Man riesce ad infondere la vitalità e il disagio dell’esistenza anche in pagine psichedeliche stracolme di kaiju. Questo perché si percepisce in maniera cristallina l’influenza di Tsuge: alcune tavole sono identiche per composizione e prospettive a quelle di Nejishiki, per esempio. Sebbene le narrazioni di Sakabashira siano di gran lunga più fantascientifiche ed astruse di quelle del maestro Yoshiharu Tsuge, è riconoscibile il flusso dell’io, linfa vitale per il watakushi manga. Insomma, l’opera in esame potrà non essere un manga dell’io, ma è sicuramente figlia (forse abortita) dell’influenza del gekiga di Tsuge.

L’omaggio di Imiri Sakabashira all’opera di Yoshiharu Tsuge.

L’heta-uma di King Terry

Un’altra grandissima fonte di ispirazione per Imiri Sakabashira è stato l’heta-uma, una corrente artistico-filosofica che faceva dell’anticonformismo e della trasgressione i suoi canoni. Sviluppatesi intorno agli anni ’70, l’heta-uma si concretizzò con tavole volutamente bruttee rozze, indici di fortissima provocazione alle tendenze del momento. L’iniziatore di questo straordinario modo di intendere il manga è considerato Teruhiko Yumura, soprannominato King Terry.

Geniale, irriverente, persuasivo e carismatico, King Terry ha influenzato con il suo stile (e con il suo manuale) Imiri Sakabashira, uno degli ultimi pilastri dell’heta-uma, e moltissimi altri autori. Non è assolutamente difficile da notare questo influsso artistico in The Box Man: i disegni di Sakabashira sono plumbei, sgraziati, talvolta addirittura scarabocchiati. Il tratto provocatorio dell’autore, però, diventa qualcosa di più, assume un potenziale sociale. Sakabashira riversa la crisi, sia quella assiologica sia quella economico-sociale, all’interno delle sue pagine. Disegnando tavole inquietanti e cupe addita un sistema, quello capitalistico, che ha rappresentato la pietra tombale per il Giappone. L’artista, con le sue creature e i suoi mostri, si ribella definitivamente al giogo della dissolutezzanipponica.

Takashi Nemoto
Il “Nemoto Guernica Project”, un enorme dipinto realizzato da Takashi Nemoto, uno degli artisti che più di tutti ha appreso e introiettato nelle sue opere la lezione di Teruhiko Yumura.

I tokusatsu di Takayoshi Mizuki

Un elemento immediato che si nota nelle illustrazioni dell’artista sono i costanti riferimenti ai tokusatsu. Sakabashira inserisce una moltitudine di rimandi alla sua giovinezza che, vissuta negli anni ’70, ha visto le origini e gli sviluppi mozzafiato del genere fantascientifico, da Godzilla ad Ultraman. Uno degli autori che più ha influito sulla crescita del genere è senza ombra di dubbio Eiji Tsubaraya, il cosiddetto “dio dei tokusatsu“. Direttore esecutivo di numerose pellicole kaiju eiga e grandissimo esperto di effetti speciali, Tsubaraya è riconosciuto come il papà di Ultraman, rivoluzionaria serie tokusatsu.

Dietro il mito di Ultraman vi era però uno staff ben più esteso: una delle personalità più importanti è sicuramente Takayoshi Mizuki. Mizuki, per anni, ha illustrato in maniera eccellente iconiche scene di combattimento incentrate sul personaggio di Ultraman e i suoi kaiju nemici. Raccolte in diversi volumi (Kaiju Ebanashi Ultra Monster), le illustrazioni dell’autore hanno quell’inconfondibile tocco vintage che caratterizza anche le tavole di Sakabashira. The Box Man, così come molti altri racconti, rappresentano, con uno stile tanto dettagliato quanto pacchiano, eccellentemente i lasciti della mania dirompente dei tokusatsu.

Takayoshi Mizuki

L’uomo dalla calzamaglia rossa si allunga e si restringe come vuole

L’anticamera del surrealismo

L’uomo dalla calzamaglia rossa (in giapponese, Aka Otoko Tights) è un breve racconto che antecede The Box Man: una sorta di anticamera della vera e propria opera. Inizialmente, in Giappone, infatti, The Box Man venne pubblicato in una raccolta di racconti intitolata proprio Aka Otoko Tights. Star Comics, scostandosi dall’edizione inglese pubblicata da Drawn & Quarterly, ha voluto inserire queste pagine prima dell’opera del titolo. Tutto ciò può essere un utile lenitivo prima di approcciarsi al bizzarro e lisergico stile di The Box Man.
La trama trova nella sua semplicità la sua più totale enigmaticità. L’uomo dalla calzamaglia rossa è un coacervo di immagini apparentemente senza senso: i dialoghi sono talmente pochi che il tutto sembra un artbook pieno zeppo di tavole distorte, psichedeliche e frastagliate.

Il tutto si può dividere in tre sequenze: la camminata dell’uomo con la calzamaglia rossa, la camminata di Nekokappa e un epilogo da ottovolante. Un buffo ometto con indosso soltanto una calzamaglia rossa si reca in uno stranissimo laboratorio robot. Per una serie di motivi totalmente illogici, si ritroverà bloccato a terra da un aggressivo robot mascherato da tigre. Inoltre, Nekokappa e un mostriciattolo dal sorriso arcigno gli tireranno la calzamaglia all’inverosimile. Qui il soggetto cambia e i riflettori vengono puntati sulla chilometrica passeggiata di un Nekokappa imperturbabile, che, giunto davanti ad una statua, lega la calzamaglia e inizia a combattere contro un coniglio robotico. Sul finale succede quello che non doveva succedere: il caso fortuito vuole che all’uomo venga recisa una gamba della calzamaglia. Questo farà sì che, ad una velocità estrema, il protagonista ripercorra la strada di Nekokappa, rimanendo alla fine tramortito.

Una flânerie anestetica

Come si può dedurre dalla trama sopracitata, trovare un significato al racconto sembra impossibile. Quelli di Sakabashira sono frammenti e prospettive di una società in costante progresso ma impiallacciata da antiche tradizioni coeve. In questo senso, non serve per forza di cose introiettare una logica nelle tavole dell’autore. Piuttosto dobbiamo limitarci a fare i flâneur, girovagando con lo sguardo nei posti sudici, mistici, disgustosi ekitsch“.

Seguendo l’uomo con la calzamaglia rossa, così come Nekokappa, districarsi tra le serpeggianti stradine di una città completamente sui generis, l’autore vuole farci apprezzare il suo stile. Risulta praticamente impossibile non fermarsi ad osservare con disgusto e con stupore la proiezione del mondo folle di Sakabashira. Il lettore resta esterrefatto dalla esorbitante presenza di particolari e dettagli accostati a personaggi e vedute che niente ci azzeccano. Ancora una volta, chi legge è chiamato ad attivare la sospensione dell’incredulità per godersi illustrazioni impermeabili ad ogni tipo di logica e per vivere in un mondo dove la causalità diviene casualità.

Un divertissement lisergico

Come ultima considerazione è utile citare il fatto che, ci si accorge ben presto scrutando a fondo i minimi dettagli di ogni pagine, l’autore si sia divertito da morire a realizzare quest’opera. A parte avere il più completo controllo sulle tavole (e ciò è dovuto soprattutto alla totale mancanza di logica), l’autore fa dilagare il suo stile surrealista anche sui canoni strutturali del manga. Il divertissement dell’illustratore non si concretizza soltanto grazie alle più disparate e bizzarre creature, ma anche alla composizione delle pagine.

Tra venditori ambulanti dalle fattezze amorfe e creature di ogni genere, durante il tragitto di Nekokappa ci imbattiamo in una stranissima sequenza televisiva. Le vignette divengono arrotondate ed iniziano a susseguirsi immagini di meraviglioso non senso che non rispettano minimamente la struttura della pagina. Un altro artificio geniale è la rappresentazione in deliranti nuvolette dei sogni di un padre di famiglia: in queste tavole oniriche, assolutamente identiche a quelle precedenti altrettanto surreali, si passa in un battibaleno da scenari apocalittici a scenari erotici. Ed infine abbiamo mille suoni diversi, da frastuoni a stillicidi metallici, rumori e versi raccapriccianti e canzoni sgangherate. Vi sono le esilaranti pagine di Charmy Salamander e dei suoi strilli e la scanzonata “La ragazza dell’olio di camelia” che si alternano a lunghi e tombali silenzi.

Aka Otoko Tights
Seconda edizione, con copertina rivisitata, di “Aka Otoko Tights” (赤タイツ男), rinominata, appunto, “Aka Otoko Tights – Revised” (増訂版赤タイツ男).

The Box Man

Un’odissea da Seirindo a Seirin Kōgeisha

The Box Man rappresenta uno degli esperimenti più riusciti ed apprezzati di Sakabashira. Anche in questo caso la trama ha uno schema lineare che scenderà a patti con l’arzigogolato mondo illustrato dall’autore. Protagonista è di nuovo Nekokappa, il quale decide di gettarsi su uno scooter in movimento, guidata da uno strano individuo estremamente silenzioso. Questo sembra tenere particolarmente ad una scatola che protegge avidamente. I due passeranno una notte piena di peripezie e disastri, tra creature assassine e poliziotti sempre in allerta, senza mai distogliere lo sguardo da quella stranissima scatola.

Il viaggio dei due bizzarri personaggi, di stampo squisitamente surrealista e psichedelico, non è l’unica odissea che ha caratterizzato l’opera. Imiri Sakabashira realizzò un prototipo praticamente identico qualche anno prima. Questo venne pubblicato nella raccolta MaMaFuFu, edita da Seirindo, l’editore di Garo, rivista su cui l’artista cominciò a scrivere i suoi racconti. La versione di Haka no Otoko in analisi è invece stata pubblicata sul periodico di manga alternativo AX, il cui editore è Seirin Kōgeisha. La differenze sono relativamente poche: la trama è la medesima, cambiano soltanto alcune prospettive, il personaggio di Nekokappa e il numero di tavole, minore nella prima edizione dell’opera. Questo ci fa comprendere come The Box Man sia stata un’opera praticamente partorita dall’autore nel corso degli anni, un’opera di profondissima importanza per Sakabashira.

Paura e delirio a Kowloon

Lo schema narrativo riprende quello de L’uomo dalla calzamaglia rossa: uno scooter che viaggia attraverso pagine innestate su panorami lugubri ed atmosfere claustrofobiche − tra fastidiosi kaiju, discariche di autovetture, una periferia oscura gremita di rottami e ruggine, strettissimi viottoli e luridissimi bugigattoli. Le tavole di Sakabashira sono magnetiche e, per quanto opprimenti, degne di essere inquadrate. Passando da cartelloni pubblicitari taiwanesi logorati a maschere e simboli hawaiani, le vicissitudini lisergiche sembrano prendere luogo in una surreale Kowloon apocalittica.

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Inoltre, l’autore riesce a calibrare in maniera eccezionale il sottile filo di trama con tavole che in ogni momento cercano di fagocitare la storia. Tra una sequenze di tavole magistralmente dettagliate, Sakabashira inserisce sempre un elemento chiave. Come quando dalla scatola sembrano uscire due inquietanti chele di granchio, oppure quando le folli corse in sella al motorino vengono bruscamente interrotte con mirabolanti cadute. In questo pericoloso mondo non mancano i nemici, ed, anzi, tutti i residenti delle bizzarre pagine sembrano frenetici ed instabili. Infatti, quello che era uno spedito viaggio sullo scooter diviene presto una fuga dalla polizia, dopo che due agenti, bloccando i protagonisti per una perquisizione, vengono brutalmente uccisi dalla misteriosa scatola dalle chele di granchio.

Il delirante ero-guro degli umanoidi amorfi

Il viaggio prosegue e Sakabashira mostra nuovamente la sua versatilità, stavolta affrontando in maniera sapiente i crismi dell’ero-guro. I due protagonisti, scappando dalla scena del crimine, si rifugiano inconsapevolmente in quella che sembra un’enigmatica cripta rigurgitante di oggettistica avvolta da un misticismo esoterico e esotico. Il tutto culminerà con dialoghi intraducibili (scritti con caratteri puramente inventati) e con il santone spirituale che viene deliziato con un rospo allucinogeno donatogli dalle chele nella scatola. Se questa scena risulta alienata, la prossima è ben più pesante.

Notte putrescente
Questa è l’immagine che appare sulla copertina dell’edizione del 1982 di Yume no Q-SAKU (夢のQ-SAKU), manga di Suehiro Maruo, il cui titolo fa il verso al leggendario scrittore Yumeno Kyousaku, pubblicato in Italia da Coconino Press sotto il nome di “Notte putrescente”. Immagina divenuta con il tempo iconica ed utilizza per altri media, Imiri Sakabashira, in “The Box Man”, la inserisce all’interno di una tavola situata in questa sezione dell’opera. Sapete trovarla?

I due fuggitivi entrano in un’abitazione privata, fin da subito circondata da un’aura straniante. Quello che vedranno davanti ai loro occhi sarà tanto terrificante quanto demenziale. In una geniale sequenza voyeuristica, i protagonisti spiano uno dopo l’altro disparati mostri sottomettere donne e uomini a forza di wrestling. Seppur queste scene, perfettamente incastonabili negli infidi meandri dell’ero-guro, non abbiano espliciti elementi pornografici, permane una sensazione, quasi ironica, di disgusto. Da scoiattoli e rane giganti che strozzano le loro vittime, a viscide creature tentacolari e melmose che fanno il solletico alle poverette, il protagonista delle scene resta un misterioso individuo dal sesso non ben identificato che osserva con attenzione tutte le scene e che alla fine verrà malmenato a sangue da una lottatrice.

Un epilogo da midnight movie

Come se non bastasse, si scopre che le sequenze appena citate non era altro che parte di un film che tutti i mostri riversati in un buio stanzino stavano guardando, divertendosi. Pur adottando la massima cautela, i due vengono scoperti e parte una seconda fuga, quella contro una dozzina di mostri orripilanti. Riuscendo a rubare il motorino ad un cantante di strada, inizia la corsa finale tra le fatiscenti vie multietniche per seminare mostri e poliziotti. Arrivati su una spiaggia desolata, si apre la scena finale. L’autore, che per tutta la narrazione, ha saputo tenere alta l’attenzione di un lettore stranito, mostrerà il contenuto dell’agognata scatola?

Le ultime tavole sono forse le più evocative e le più complesse. Giungiamo in un enorme isola di rifiuti e cianfrusaglie sulla riva del mare, e le pagine si fanno più candide, abbandonando lo sporco precedente. Sakabashira ci mostra il contenuto del fantomatico box. Quello che sembra essere un freaks da midnight movie, è in realtà il padre del protagonista, mezzo uomo e mezzo granchio. “Da quando ti sei trasformato in un mezzo granchio, sei diventato un vero dissoluto. Non ce la faccio più a starti dietro”. Queste le parole finali del figlio, che, in sella al motorino, abbandona il padre ne “Il mare dei libertini“.

Le pagine della prima edizione di The Box Man presenti su MaMaFuFu. Le differenze più rilevanti intercorrono per quanto concerne la figura di Nekokappa e del padre-granchio.

Dall’oyakōkō all’anarchia

Il finale dell’opera ha sempre destato grandissimi sospetti. L’opera di Sakabashira riesce ad essere tremendamente elusiva ma allo stesso talmente simbolica da far annidare nella mente del lettore molteplici interpretazioni. Un paio di critici hanno deciso di affrontarne il tema e le illazioni, mai appurate dall’autore ovviamente, sono interessantissime. Oliver Ho, per esempio, presenta l’opera come disillusa e mesta parabola dell’esistenza, dove la vita è una continua lotta contro i propri demoni vissuta per sperare in un epilogo piacevole. Ma è Juan Scassa che coglie un punto ancora più abissale: il finale dell’opera sembra ruotare intorno all’oyakōkō (il parallelo nipponico dello xiaoshun cinese). L’oyakōkō è un precetto sociale e spirituale di origine confuciana che si concretizza nella cura e nel rispetto dei propri genitori.

Parabola a tratti nichilista della vita e distorsione della pietà filiale: queste sembrano le due conclusioni più accreditate (rinvigorite ulteriormente dalla figura del granchio, da sempre, dalla cultura ellenica a quella thailandese, simbolo di nascita e di morte, e dalla figura di un padre-Anchise, portato sulle spalle fino alla fine del mondo). Questo però denota ancora di più l’irriverenza dell’artista, che si fa beffe dei canoni da sempre considerati apice della moralità. Il lavoro di Sakabashira vuole essere “anarchico“, e forse anche “amorale“. Una pesante critica sociale che si manifesta in una commistione di trasgressioni, dall’heta-uma all’ero-guro, che capovolgono le concezioni sociali. Gli orribili mostri di quella società tanto inquinata quanto claustrofobica sono i rigetti che l’autore illustra per criticare una società che ha completamente perso i suoi valori (gettandosi nella più totale dissoluzione), che ha completamente perso senso.

Ciò che rende ancora più inestricabile l’opera sono le costanti ed oscure citazioni che l’autore inserisce all’interno delle tavole. In una di queste è presente, per esempio, un poster pubblicitario realizzato nel 1923 dall’artista russo Alexander Rodchenko insieme a Vladimir Mayakovsky (Мозер).

Emmanuelle, l’abitante del sottosuolo

Tra erotismo e verdure in salamoia

L’ultimo viaggio lisergico con cui Sakabashira ci delizia ha come protagonista un gatto antropomorfo che si ritrova ad esaudire la richiesta di Emmanuelle. La donna prosperosa e provocante è direttamente ispirata alla Emmanuelle dell’omonimo film di Just Jeackin del ’74, interpretato da Sylvia Kristel, pellicola che rappresenta una delle vette del cinema erotico. Ancora una volta, questo ossessivo citazionismo fa trasparire la passione dell’autore per ricercata cultura underground.

Mediante il viaggio trafilato del protagonista, Sakabashira fa sfoggio della sua genialità per quanto concerne i surreali worldbuilding. Tutto il racconto è costruito sull’equivoco e il lettore dovrà assistere ai deliri e alle assurde coincidenze a cui lo sfortunato gatto antropomorfo va incontro. In una corsa contro il tempo, anche il più insignificante particolare può divenire un fastidioso ostacolo: dalla benzina alla candela del motorino, passando dalla lampada del fanale di quest’ultimo, da un pericoloso treno e da sfrontati giocatori di baseball interessati soltanto al Koshien. Il tutto diviene ancora più “ansiogeno e disturbante con gli stacchi dalla corsa spericolata del gatto alla violenta masturbazione di Emmanuelle.

Sylvia Kristel Emmanuelle
Sylvia Kristel in Emmanuelle.

La parabola del feromone: un’esistenza inappagante

Il messaggio di Emmanuelle, l’abitante del sottosuolo sembra, di primo acchito, essere meno criptico rispetto agli altri racconti. Tramite una serie di metafore, Sakabashira illustra un viaggio, elemento come sempre centrale ed essenziale nelle sue narrazioni, che allude allegoricamente alla vita − il leitmotiv è quindi lo stesso di The Box Man. La vita non è che una concatenata serie di eventi scaturiti da impulsi, in questo caso di natura sessuale, di cui l’uomo diviene soltanto passivo recettore e naufrago delle fretta, rimanendo totalmente inappagato.

Il gatto decide di vendere le verdure in salamoia soltanto perché eccitato ed estasiato dalla visione della nuda e seducente Emmanuelle. Tuttavia la fretta, nata dalla paura di arrivare in ritardo al supermercato e trovarlo chiuso, non ha fatto altro che portare il protagonista in una situazione completamente disastrata ed inappagante: e mentre lui cerca disperatamente di tornare dalla bella Emmanuelle, questa si perde in un immenso piacere. Ancora una volta Sakabashira offre una visione disillusa dell’esistenza umana, una vita frustrante e movimentata che spessissimo non porta a nessun risultato.

Ma ovviamente questa è soltanto una delle milioni di interpretazioni a cui l’opera può dar adito. Che magari Emmanuelle si trovi nel sottosuolo per rappresentare gli impulsi del subconscio? Anche questa analisi, oramai conclusa, cristallizza secondo la concezione esistenziale di Sakabashira la frustrazione dell’uomo costantemente inappagato? Come in tutti i racconti di Sakabashira ci ritroviamo davanti ad una realtà mesta e sporca, imbevuta di surrealismo e ad una crisi dettata dal non senso. Cosa ha davvero senso in questa realtà?

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